
Buondì.
Inizia così, con un saluto mattutino, il (non) corso di scrittura e narrazione di Giulio Mozzi. Sono convinto che non sono in molti a riflettere sulla prima parola di un libro, la maggior parte preferisce andare subito in cerca della ciccia che segue. E invece io mi fermo qui, a riflettere su questo strano inizio per un corso di tecnica di scrittura – altro non vuole insegnare Mozzi, o non può, se non la tecnica: è quanto afferma nella quarta di copertina e nei risvolti del suo manuale.
Be’, un saluto al lettore mi pare educato e doveroso. Non so se il Mozzi entri in aula sparato al primo incontro e inizi a parlare su come articolare la trama. Presumo che un saluto ai presenti preceda ogni altra considerazione. E quindi un buongiorno agli aspiranti scrittori al corso e un buondì ai potenziali lettori di un libro ci sta tutto.
Devo ammettere che leggo in modo non tradizionale mettendomi, quando mi interessa, nella mente di chi scrive per carpirne i segreti che non mi vuole rivelare apertamente. È un po’ come un giallo, faccio l’investigatore in cerca degli indizi che stanno sotto gli occhi di tutti, ma che si faticano a cogliere. Quindi mi chiedo il perché del buondì. Che cosa vuole veramente dirmi il famoso editor con una parola tanto banale. Banale? Non direi. Rivediamola, proprio così: lasciate perdere l’intelletto e affidatevi all’occhio.
Buondì.
Il libro che state cominciando a leggere è un libro che ha avute tre vite. Questa che avete in mano è la terza.
Vedete? Quel buondì è una frase, non una parola. Segue l’a capo. È quindi una parola forte. Contemporaneamente è un incipit scelto tra infiniti incipit per dirci qualcosa. Vi dice niente? A me, devo ammetterlo, dice.
Dice una cosa che so da sempre e che so funzionare. Che per iniziare alla grande basta una parola semplice, diretta, che tutti possono comprendere. Questo vale per un romanzo, un saggio, un post, vale per qualsiasi forma di scrittura. Non vi dico quanti articoli in rete ho abbandonato alla seconda riga per la complessità dell’attacco. Non parlo poi dei libri o dei racconti. Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che non prendeva un pesce. Il libro che state cominciando a leggere è un libro che ha avute tre vite. Chiamatemi Ismaele. Inizia così, con un saluto mattutino, il (non) corso di scrittura e narrazione di Giulio Mozzi. Una frase secca, diretta, banale. Editoriale. Pubblicabile. Sì, proprio così: pubblicabile.
Domanda: perché non scrivete in modo semplice, e quando fate parlare i vostri personaggi o il narratore all’inizio della vostra storia sembrano tutti dei professoroni da Vespa alla tv, persi nella complessità dell’ipotassi? Noto spesso che i pensieri più articolati e raffinati, profondi e filosofici che trovo all’inizio dei vostri racconti appartengono a casalinghe, clochard, serial killer e puttane. Corollario: mollo tutto alla seconda riga.
La scrittura più raffinata è quella semplice. Oppure, c’è sempre un’eccezione, dovete essere a livello di Manzoni. Di solito non lo siete. Chissà se il Mozzi è d’accordo con questa interpretazione. Ma non importa, l’importante è riflettere sulle parole che scrivete sulla pagina. E studiare le parole pubblicate, che altri hanno già usato sulla pagina, per scoprirne la complessità o la linearità (che è una forma occulta di complessità), è un modo per imparare a distinguere ciò che è pubblicabile da ciò che non lo è.
Vi lascio infine con un quesito.
Il libro che state cominciando a leggere è un libro che ha avute tre vite, scrive il Mozzi. Avute o avuto?