EQUILIBRI PRECARI

Tanti anni fa un mio amico, pessimo di penna ma ottimo con la matita nel ritrarre, mi raccontò di avere visto sull’autobus partito bruscamente alla fermata, un uomo grande e grosso e per giunta grasso al centro del pianale dell’automezzo che cercava di reggersi disperatamente a qualcosa per non cadere. Appena sfiorava una maniglia ecco che l’autobus sobbalzava facendolo barcollare all’indietro, allontanandolo dalla presa. E lui, tentando di controbilanciarsi provava a raggiungere il paletto più vicino, ma un altro scossone improvviso lo fletteva di lato e per restare in piedi doveva danzare con le gambe e con le braccia puntando allo schienale di un sedile che quasi raggiunto si allontanava beffardamente come l’onda di ritorno del mare, mentre il suo corpo cercava un nuovo e perpetuo punto di equilibrio per restare in piedi. Ondeggiando per tutto il tragitto fino alla fermata successiva.

L’immagine, o se preferite la scenetta, dell’uomo grasso perennemente in cerca di un punto di equilibrio, mi colpì molto allora, non l’ho più dimenticata. Mi sembra quasi una metafora della vita. Una metafora però semplice e casuale, trovata e non cercata, che si può raccontare come semplice fatto o come sintesi finale di fatti slegati tra di loro. Metafora che non necessita di spiegazioni. Del tutto naturale.
Però in questo racconto c’è anche l’osservazione, colui che coglie un fenomeno, che registra con una webcam mentale un’ombra, un passo, uno sguardo, una situazione. E anziché scordarseli poco dopo, li annota per il gusto di annotarli.

Gli scrittori, quelli veri che lo sono ventiquattrore al giorno, di situazioni simili ne scorgono  in continuazione. Alcune finiranno nei romanzi, la maggior parte invece resterà confinata in un umile taccuino che solo i critici, dopo le esequie, andranno a spulciare. Anche questa è letteratura, letteratura minore. A me sembra sia la parte migliore della commedia umana – anche della tragedia –, quella che veramente fa la differenza, la polpa più gustosa dell’essere scrittori.

Qualcuno mi dice che osservazioni di questo genere gliene capitano di continuo, ma poi se le dimentica e restano solo dei semi, delle sensazioni, nel suo cuore. Perché invece di lasciarli solo lì, che già va benissimo, non li affidiamo anche a una pagina che tutti possano arricchire e al contempo depredare?
Ho così pensato di crearla, decidete poi voi se e quando servirvene.

Una raccomandazione: questa non è prosa, ma solo annotazioni grezze anche se cariche di senso. Non è la bella scrittura o la spiegazione che conta in questo contesto, ma l’osservazione attenta di un fatto nudo e crudo. Dieci righe o tre parole, non importa.

Cercate di restare in equilibrio come quell’anonimo passeggero tra gli scossoni, mentre scrivete. E poi buttate le vostre osservazioni in questa pagina, come in una buca delle lettere: qualcuno verrà di sicuro a leggerle. Domani o fra cent’anni, a noi che ce ne importa?

 

1. Qualche tempo fa, passeggiavo lungo il molo facendo rimbalzare lo sguardo sui riflessi dorati dell’acqua. È così che di solito sciolgo i pensieri di troppo: in tanti passi e tanta acqua. Decisi di sedermi su un blocco ovale di cemento per riposare un po’ le gambe. Dopo poco, mi accorsi di una coppia di anziani seduti poco più in là, su un blocco uguale al mio. Al centro tra i due, una sedia a rotelle su cui era seduta una bambina di quaranta, quarantacinque anni, forse di meno, difficile dirlo con esattezza. Non volevo essere maleducata, ma non riuscivo a non cedere l’attenzione su di loro. La signora le accarezzava la testa e con l’altra mano le asciugava la saliva ai lati della bocca. La grande bambina faceva i capricci, emetteva dei suoni acuti con la voce e si toglieva in continuazione gli occhiali poggiandoli sulle gambe: cinque, sei, sette, dieci volte. Il padre si avvicinava a lei e con un «no» gentile, li rimetteva al loro posto, sul viso. Ho pensato che molti genitori avrebbero perso la pazienza dopo le prime due, ma non loro. La madre le canticchiava una canzoncina a me sconosciuta intervallandola con un: «Sì sì, ho capito. Sei stanca, ora andiamo. Prima mangia questo biscotto, mastica bene… È buono?» Poi, l’aiutava a bere un sorso d’acqua da una bottiglina di plastica, di quelle col salvagocce. Quanto amore e quanta tenerezza; sorrisi, paroline, piccoli rimproveri, gesti impregnati di attenzione e leggerezza. In quello che facevano non c’era alcun segno né di rabbia, né di impazienza. Guardarli mi faceva pensare a quanta felicità buttiamo via senza motivo; da quanti problemuncoli ci lasciamo tormentare inutilmente, scioccamente. Che poi, ci sono valide ragioni per gettare via la felicità? Le persone che ero rimasta a spiare per quasi un’ora e che ormai si stavano allontanando con l’anziano che spingeva la carrozzina, mi dicevano che non ce ne sono e che ognuno di noi, può scegliere di reagire alle situazioni anche alle peggiori, con amore o con rabbia; con coraggio o paura. Mi alzai anch’io per tornare a casa anche se con riluttanza; mi piace restare a fissare il momento in cui il tramonto sfuma i colori per lasciare al cielo quelli della sera. Nei giorni a seguire, il mio cuore è rimasto a galleggiare su quel ricordo e ho pensato che sarebbe stato bello farlo uscire dalla sua bolla per condividerlo qui, oggi.

 

2. Mi ricordo un episodio in treno.
Siamo in uno scompartimento, io e una ragazza più giovane, bionda, cappotto grigio. Fissa gli occhi fuori dal finestrino. Piove, è inverno, lo sguardo le balzella fra cose che corrono fuori mentre il treno prende velocità.
Io ho dinanzi a me Possessione della Byatt, il libro che mi ha fatto perdere una fermata la volta precedente. Ma questa volta ho qualcosa di più interessante oltre quelle pagine, dinanzi a me. La osservo facendo attenzione che non lo noti. È bella. Molto. Mi ricorda una di quelle svedesi che passano sul retro dell’edificio in cui abito, che uscite dall’hotel vicino trascinano i trolley verso la stazione.
Accade improvvisamente che gli occhi le si riempiano di lacrime. Di colpo, come fontanelle. Tira fuori un fazzoletto, si asciuga gli occhi. Mi si stringe il cuore. Vorrei parlare, dire qualunque cosa, ma non ci riesco. Fingo di non accorgermi di nulla e il mio sguardo si divide fra libro e quel volto triste.
La porta si apre, entra un uomo. Lei accenna un sorriso, tira su col naso, si inventa un’espressione diversa. Sono stranieri, parlano una lingua che deve essere ugrofinnica perché non ne capisco una parola.
Lei ha indossato una maschera e la sua tristezza svanisce sotto un sorriso perfettamente simulato.
Questa, una delle tante storie di un pomeriggio d’inverno, in treno.

 

3. Una coppia si è ricavata un angolo di tram poco distante da me. Non proprio un angolo per la verità: una nicchia. Lei ha trovato posto a sedere e lui è in piedi, vicinissimo, che le parla quasi appiccicato. Lui gesticola, è di spalle, non so che faccia abbia. Ma da dietro sembra un armadio a sei ante. Lei invece, quando lui traballa leggermente per gli strappi improvvisi del tram, mi appare di tre quarti. Sarà a due metri, un metro e mezzo da me, sulla diagonale. Se inclina leggermente la testa in avanti tocca la pancia di lui, tanto lui le sta a contatto. Per guardarlo in faccia, deve reclinare il capo all’indietro, mi sembra un po’ soffocata dalla postura del suo uomo.
Che è il suo uomo si capisce da come ridono e gesticolano. Con la mano destra che non si tiene al tram, lui tenta di colpirla con degli schiaffetti sulle guance. Lei si ritrae, si difende, ride. Leggo il mio Gadda: «”Mària Vergine!”, come ammettendo di poter essere sospettata del contrario. No, la servente no la gera de Marino, no la gera dei Castelli Romani…». E sento un ciaff!
Allora alzo gli occhi dal Pasticciaccio, e vedo che seguitano i colpi e le parate. Mi rituffo nella pagina e un altro ciaff!, più sonoro questo. Guardandola ora lei non ha più lo stesso sorriso, ma è quasi sorpresa. Alza gli occhi all’uomo e non tenta più di difendersi. Lui prima fa una finta, e poi prova una carezza che non è gradita, perché lei ritira il viso, allora la carezza si trasforma in uno schiaffo, leggero ma voluto. Lei alza lo sguardo, muove le labbra, ora smettila sembra dire, e stringe a sé la borsa. Non giocano più. Ma lui la opprime con la sua muscolatura e c’è sempre quella mano libera che vuole giocare a schiaffi, anche se ora gioca ormai da sola. Forse qualcuno guarda, gli altri proprio non li vedono. E io riabbasso gli occhi al libro, ma di leggere non ho più voglia.
Ogni tanto torno su di loro, lui parla dall’alto, si esprime soprattutto con lo sguardo che io non vedo, lei non vorrebbe più trovarsi lì, imprigionata sul sedile. Non può né alzarsi, né alzare il viso, perché quando lo fa lui agita la mano e questo è sufficiente per far sì che lei debba proteggersi, ma ridacchiando, ma non con un bel sorriso sincero. Non sono fatti miei, in fondo non sta succedendo niente, una coppia che scherza per i fatti suoi e se guardassi l’uomo con espressione interrogativa quell’armadio so cosa mi direbbe in faccia: fatti i cazzi tuoi. Desidero che scendano, come vorrei scendessero.
Forse mi hanno ascoltato perché lui le si allontana leggermente e lei può finalmente alzarsi, e io mi rituffo dentro il libro abbassando il capo, perciò lui non lo vedo mentre mi sfila via. Vedo solo la sua mano destra e forte che tiene stretta la sinistra di lei, che lo segue docile con un sorriso disegnato sulle labbra, ma pietrificato, smorto, e due occhi neri impauriti e imploranti una grazia per una punizione che sente arriverà. Per quale colpa poi?

 

4. Sono in fila alla cassa del solito supermercato e davanti a me c’è un signore anziano, un po’ curvo, che tiene in modo precario tre confezioni di biscotti. Sembra che gli stiano cadendo, così gli offro di ospitarle nel mio carrello. Lui mi dedica un sorriso, poi si mette a parlare: capisco che ha bisogno di raccontarsi a qualcuno e io sono lì e lo ascolto volentieri. Mi dice che fa la spesa ogni giorno, lasciando la moglie invalida, sola, a casa. Che si prende cura di lei, al mattino, le legge il giornale, le fa fare colazione, la lava, persino. Che la badante viene solo per la notte e l’unico figlio abita all’estero. Mentre parla della donna sposata sessant’anni prima ha il tono di un narratore di fiabe, non so come spiegare: parla lentamente, seguendo il filo immaginario dei ricordi e quando deve recuperarne uno, in particolare, allora sposta lo sguardo su un punto astratto che può essere lo scaffale della pasta o il bancone dei surgelati. Con orgoglio mi dice di avere compiuto da poco novant’anni e che ringrazia il Signore tutte le sere per avergli dato la possibilità di camminare ancora, al contrario della moglie costretta in un letto, perché così può andare al supermercato a comprare le cose che piacciono a lei; lui ama farla felice e sa che le renderà la giornata migliore portandole su un vassoio i suoi biscotti preferiti assieme alla tazza con il tè che beve di solito. Quando mette le tre confezioni sul nastro scorrevole della cassa, ha gli occhi lucidi. Anch’io esco dal supermercato con i miei nascosti dietro gli occhiali da sole.

 

5. Mi trovo al parco seduta su una panchina, osservo tre bambini tra i sei e i sette anni giocare a calcio in un campetto di terra allestito con due reti. A turno si mettono in porta mentre gli altri due, dal dischetto, tirano i rigori: tre calci ciascuno, vince chi ne segna di più. È bello restare a guardarli e registrare le reazioni per un goal, una parata o un tiro completamente fuori che fa scattare il coro: «piede a banana!». Mentre mi godo la scena dell’irruzione di una bimbetta di cinque anni che chiede di partecipare alla partita, dalle mie spalle sento una voce che percepisco essere di un adulto: «presto, ci muoviamo?». Non faccio in tempo a voltarmi che un uomo sulla quarantina, vestito in canotta e calzoncini avanza; seguito da altri sei ragazzotti sui quindici anni ciascuno prendono possesso del campetto. L’aria spavalda. Il ragazzino più grassottello del gruppo con il viso arrossato dal troppo sole, urla: «Ehi, zio mettiti in porta, vediamo se vedi la palla!». Intanto, al centro discutono le posizioni da occupare. Sono raggiunti da un altro signore, anche lui in tenuta sportiva, stesso atteggiamento disinvolto che va a posizionarsi all’altro lato del campo. Gli altri sei componenti si organizzano: tre contro tre. Osservo accigliata tutta la scena. I bambini dei rigori e la new entry che dice più volte di chiamarsi Melania sono ancora lì; ostinati continuano a passarsi la palla in uno spazio ridotto. Si scambiano occhiate ed esibiscono espressioni incredule, contrariate. Il più grandicello tra i quattro si mette il pallone sotto al braccio, si avvicina di qualche passo a uno dei due adulti: «Signore, signore… qui stavamo prima noi». Alla protesta si uniscono gli altri bimbi: «non potete giocare voi». Sbottano: «andate via. C’eravamo prima noi». L’ultima arrivata tenta un «non si fa così». Nessuno li degna di uno sguardo o di una risposta; sono fantasmi. Già, non si fa così, penso seduta al mio posto, la tentazione di intervenire anche solo per dare a tutti dei maleducati. La squadra di prepotenti inizia la partita senza neanche aspettare che i bambini si rassegnassero a uscire dal campo. Capita la situazione, è il più piccolo dei tre a suggerire di spostarsi a giocare nel prato all’ombra e di usare due alberi come pali della porta. L’allegria ritorna su quei faccini imbronciati; corrono tutti dall’altro lato del parco seguiti dalla piccola Melania che imperterrita vuole guadagnarsi un ruolo in squadra. Io invece, penso all’esempio di certi adulti e non ho più voglia di restare.

 

6. Le albicocche mi sembrano piccoli tramonti. Sorrido quando ne tengo una in mano e anche quando le compro al supermercato. Una volta ho visto una signora sorridere alle albicocche prima di infilarle nel sacchetto. Forse, però, sorrideva per i fatti suoi e io sono pazza.

 

7.  Una distesa di girasoli sotto un cielo plumbeo. Come impiccati in fila, chini verso l’erba ad attendere la resurrezione in un raggio di luce.

 

8. Ascoltiamo le urla minacciose di un uomo a un bambino piccolo che piange spaventato, per capire da quale appartamento dell’isolato provengano… La vicina di casa è convinta che si tratta di una delle case popolari, per la signora del sottoscala è piuttosto il palazzone nuovo alla fine della strada. Che poi, una volta capito, che facciamo? Chiamiamo la polizia? Non saranno stati forse solo un padre particolarmente nervoso per il caldo e un figlio piagnucoloso che faceva i capricci per una sciocchezza?… Ecco, adesso non si sentono più né urla né pianti. E noi stiamo sul pianerottolo a non capire se siamo cittadini con un senso civico tale da preoccuparci per cose del genere o solo dei maledetti impiccioni.

 

9. Sono seduti una di fronte all’altro, le gambe di lei strette tra le gambe di lui. Intrecciano le mani, le dita giocano ad acchiapparella. Fronte a fronte, occhi negli occhi, le teste danzano nell’aria un valzer lento. Le bocche si aprono lentamente, non dicono parole, sussurrano ogni cosa, sorridono. Le porte del treno si aprono: lei scende, lui resta. Il viaggio prosegue senza più poesia.

 

10. La ragazza abbronzata con la farfalla tatuata sulla spalla destra mi sbarra la strada preoccupata mentre cerco di salire sul tram. All’inizio penso che stia male, che voglia scendere, mi guarda implorante, ma poi alza gli occhi al soffitto, segue qualcosa con attenzione, guarda verso il pavimento, sotto i sedili, fa un passo avanti e poi indietreggia. Ora finalmente vedo anch’io il motivo di tanta apprensione: una libellula azzurra, disorientata, svolazza tra i sedili vuoti. Da lontano tre o quattro anziani fissano la ragazza divertiti, si scambiano un ghigno malizioso. Mi metto un po’ in disparte, un metro dietro, osservando l’insetto che ora si è posato. Sbatte le ali in sincronia, le apre e le richiude lentamente. Un battito ogni tanto, restando immobile aggrappata alla parete. Sembra che respiri, che stia meditando le prossime mosse, esausta, per fuggire alla prima occasione favorevole. Si avvicina la fermata, la farfalla fa un passo avanti, incerto, verso la libellula. Poi scatta improvvisa quando il tram si ferma, apre la porta vicina all’insetto immobile. Quasi fosse un segnale, un invito, il richiamo dell’aria calda che viene da fuori le illumina la strada ed è già volata via. La ragazza ora è tornata calma, si siede finalmente, incrocia i sorrisi degli anziani, poi ci ripensa, si alza e sceglie un posto che volti loro le spalle. Resto a guardare la farfalla sulla spalla, ora immobile, che ha dato la libertà alla libellula. Alla fermata successiva scendo. Una favola moderna.

 

11. Inizia a piovere. Nuvole che sembrano di cenere esplorano come turiste margini di cielo. Passeggere casuali di questa estate abitano la meraviglia solo per un po’, senza saperlo.