Sono pronto per uscire

«Accendo la televisione dal letto. Cinque morti nel crollo di una palazzina, un treno deraglia a Marsiglia, l’incidenza delle malattie cardiovascolari sulla mortalità precoce, due impiccati nella stessa mattina in un carcere della Virginia, l’aumento della disoccupazione come fenomeno stabile, bambini di sei mesi impiegati in videotape a luci rosse.
Spengo la televisione. Mi alzo. Sono pronto per uscire».

Questo breve passaggio di Giuseppe Pontiggia, di cui ho comprato due libri l’altro giorno – e di questo acquisto ho parlato nel post precedente – è un esempio virtuoso di quello che intende Kafka paragonando il libro all’ascia per rompere il cuore di ghiaccio dentro di noi, a cui ho accennato due post fa.

Quello che stai leggendo ora è il post numero 1000 di questo blog, ed è anche l’ultimo che scriverò. È il suo limite superiore. Ma se nell’immagine di Pontiggia, così asciutta e precisa, una parte di te si è specchiata e ti fa inorridire, potresti allora avere la curiosità di sapere in quali circostanze è maturato l’acquisto del libro, circostanze che trovi appunto nel post 999.

Se invece vuoi incrociare l’ascia per il cuore di ghiaccio dovrai scendere ancora un gradino, e aprire la porta del post 998. Scendere ulteriormente è solo una tua scelta, magari legata a semplice curiosità per un blog che si può leggere al contrario, anche solo per scoprire che cosa è successo prima.

Però potresti anche saltare, ti basterebbe immettere nella stringa di ricerca una parola che ti interessa, o viaggiare per argomenti, e ritrovarti in un mondo che è stato in parte scritto, ma è ancora tutto da scrivere. Potresti materializzarti nel post 658 e decidere di risalire; 34 e decidere di scendere. Vedi tu se perderti o no in questo labirinto, dove in molti si sono già persi prima di te, e di cui puoi osservarne gli scheletri dei pensieri nei commenti. Incatenati, giacciono lì per sempre.

Mi alzo. Sono pronto per uscire. Vado a scrivere altrove.

Se passando di qui ti senti pronto per entrare e leggere anche solo per un’ora in questo labirinto, la porta numero 1000 è sempre aperta. Le altre, se ti interessa, le dovrai spingere tu.

 

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La cura

Ieri ho iniziato  Da dove sto chiamando, di Raymond Carver. Ho letto il primo racconto dell’antologia, Nessuno diceva niente. Ho riflettuto per un po’, dopo averlo finito. Poi sono uscito di casa, dovevo correre al lavoro. Nel tragitto sono entrato un attimo nella prima libreria che ho trovato sulla mia strada, e ne sono uscito con due libri di Pontiggia. Bene, ora va notevolmente meglio.

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Scrivere è un sogno

«Scrivere è un sogno».

Con passione, veemenza, sentimento mi è stato detto che lo scrittore fai da te scrive per realizzare e tenere vivo un sogno, il sogno di scrivere. Sogno che gente come me, pessimi soggetti, tende a irridere, osteggiare, distruggere, demolire.
Al fondo delle motivazioni che portano un autore a pubblicare, dunque, ci sarebbe il sogno di scrivere, e che grazie alle nuove tecnologie digitale ora non è più un sogno.

Ma scrivere è un sogno?

Chiedetelo a Saviano se scrivere è un sogno o non è invece un incubo, lui che dopo Gomorra – che ha svegliato l’opinione pubblica, i politici, gli imprenditori sulle infiltrazioni mafiose negli affari del ricco nord d’Italia, negate a lungo specie in Lombardia – non può più girare per le strade senza una scorta predisposta dallo Stato.

Chiedetelo a Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento, e tanto acuto e sensibile da raccontarceli senza sentimentalismi, vittimismi e desiderio di vendetta, per restituirceli oggettivamente: giudicate voi se questo è un uomo, si limita a dirci. Sognava di scrivere o passava le notti insonni a combattere tra il dovere della testimonianza e il dolore dell’esistenza?

Chiedetelo all’altro Levi, Carlo, condannato al confino per le sue idee politiche, se preferiva sognare o aprire bene gli occhi e descrivere le genti di Lucania perché potessimo comprendere anche da un punto di vista letterario la condizione dei cafoni e del Mezzogiorno depresso.

Chiedetelo a Dante, errante da un comune all’altro, con una condanna al rogo sulla testa, una vita da esule trascorsa col pensiero fisso alla Divina Commedia, notte e giorno, per anni, per racchiudervi in rima volgare tutta la cultura medievale, le lotte politiche, le discussioni teologiche di cui lui stesso era protagonista. Chiedetegli se scrivere è un sogno o un impegno civico.

Chiedetelo a Verga, a Manzoni, a Leopardi. Chiedetelo anche a Montale, Sciascia, Calvino. Chiedetelo a tanti, italiani e stranieri.

A Proust, a Tolstoj, a Kafka. A Joyce, a Beckett, a Ibsen. Chiedetelo a tutti.

Chiedetelo a chi nel braccio della morte di qualche Stato americano sta scrivendo oggi le sue ultime parole; chiedetelo ad Anna Stepanovna Politkovskaj, se scrivere è un sogno o una condanna a morte.

Questi e molti altri, quasi tutti per fortuna, vi diranno di no, che scrivere non è un sogno. Scrivere pretende di essere desti per denunciare con precisione chirurgica gli abusi della forza, la dittatura del perbenismo, l’ipocrisia del comune sentire. Scrivere chiede osservazione attenta e antiretorica dei deboli, degli emarginati, di chi non ha voce per esprimersi.

Lo scrittore non sogna, vigila. E parla a noi lettori dormienti, sempre distratti perché immersi nei nostri comodi dormiveglia, per svelarci la verità – togliere il velo – dei falsi sogni in cui ci piace vivere immersi, in cui ci fanno vivere immersi.

I sogni degli scrittori non m’interessano. Leggo per essere destato prepotentemente, non per far sognare uno scrittore.

E quando scrivo in questo blog – ma non preoccupatevi, siamo agli sgoccioli, tra poco dormirete sonni tranquillissimi – lo faccio per svegliarvi, scuotervi, tormentarvi. Lo farò fino all’ultimo perché voglio semplicemente che diventiate scrittori capaci di scuotere chi legge.

Ma per voi il libro è l’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi lettori, come dice Kafka, o il sciogno dello scrittore da quando aveva dieci anni con ingresso vip al Billionaire come ama dire Briatore?

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Ma l’autoeditore sa essere autoironico?

Un autore indipendente all’apice del successo

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L’altro hashtag

Alcuni si lamentano che le librerie grondano di schifezze illeggibili; altri affermano che gli scrittori che si pubblicano da soli fanno anche peggio. Ho scoperto solo oggi – voi non ditemi mai niente, devo arrivarci sempre da solo e con anni di ritardo – che digitando #cosastoleggendo, mi ritrovo di fronte a infiniti libri consigliati dai lettori. Un passaparola notevole, agile, utile.

Penso che quelli che i libri li vendono, autori ed editori, considerino una manna tutta questa pubblicità gratuita. Se fossi uno di loro cercherei anche di alimentare questo sterminato flusso di consigli di lettura, di tanto in tanto, con qualche suggerimento «interessato».

Mi viene il dubbio del consiglio per gli acquisti pilotato anche perché si dice che in Internet si trova sempre tutto. Potrà sembrare strano, ma dell’hashtag #cosahosmessodileggere non c’è invece traccia. Possibile che nessuno ci abbia mai pensato? Eppure di libri abbandonati per mancanza di uno dei tanti requisiti per giungere fino in fondo alla lettura dovrebbero essercene non pochi viste le lamentele che sento così ricorrenti in rete.

Non so se un blog è in grado di generare un hashtag, ne dubito, ma vi devo dire #cosahosmessodileggere proprio ieri: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Mi dispiace tanto, l’avrà scritto anche il grande Gadda, ma se non l’avete ancora letto, non sentitevi in colpa.

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Lettera all’autoeditore

Cari autori in self-publishing,

ieri pensavo a voi, alle difficoltà che avete ogni santo giorno per essere trattati alla pari dai vostri concorrenti editori. Perché – diciamocelo – da questa contrapposizione, editoria tradizionale versus self-publishing, non ve ne viene niente di buono. Vi guardano dall’alto in basso, vi giudicano poco professionali, a volte vi deridono. Lo so, ve ne fregate, ma fino a un certo punto: perché poi state sempre a parlar male dell’editore che pubblica roba indegna, mentre voi…

Per quanto ancora potrete sopportare questa situazione? Non dico quelli poco attrezzati, che non rivedono i proprio scritti, non sanno nemmeno cosa sia l’editing, scrivono storie adolescenziali infarcite di sgrammaticature. Non parlo di loro che lasciamo nel loro brodo primordiale. Parlo di voi, che invece cercate di essere professionali. E, soprattutto, di dimostrare con il duro lavoro quotidiano di essere all’altezza di un prodotto editoriale di qualità.

I migliori tra di voi hanno capito che per essere trattati alla pari nel mondo editoriale, non intendo solo nel rapporto con gli editori, ma anche librai, distributori, giornalisti, scrittori tradizionali, blogger letterari di una certa importanza, occorre cambiare le definizioni, il paradigma, l’idea che gli altri operatori dell’editoria devono farsi di voi. Ed ecco quindi il primo timido passo linguistico: da autopubblicati ad autoeditori. Chissà chi è il primo di voi che ha pensato questo termine che sposta la questione – secondo voi – dalla scrittura al processo di produzione del libro, che deve seguire la filiera dell’editore tradizionale per stargli, anche socialmente, alla pari.
Vorrei conoscerlo proprio quello che ha pensato al termine «autoeditore». La terminologia è fondamentale, il modo in cui ci definiamo, soprattutto se inclusi in una minoranza magari derisa, segregata, offesa (non è esattamente il vostro caso, ma ci siamo capiti: in certi dibattiti, in rete o reali, l’autopubblicato e i numeri delle sue vendite vengono completamente ignorati, cosa vuoi che sia, dicono quelli che appartengono alla repubblica delle lettere).

All’inventore dell’autoeditore vorrei dire: ma sei sicuro che introducendo questo neologismo hai risolto il problema? Una volta esisteva il netturbino, lo spazzino. Nel tempo si è trasformato, per legge e cultura, in operatore ecologico: ma sempre la spazzatura per la strada toglie, e in molte città attualmente non è più tanto attivo. Comunque, non siamo qui per discutere dei problemi della nettezza urbana. Resta il fatto che il termine ha avuto successo, e noi per fortuna eleviamo quell’«operatore ecologico» al rango di altre faccende ecologiche, e quel segnale di un censo inferiore insito nel termine «netturbino» o «spazzino», che liquidava sbrigativamente un lavoro degno, ma che nessuno desiderava per i propri figli, ora è completamente svanito.

Ma «autoeditore»? Davvero è la soluzione che parifica la vostra attività a quella dell’editore senz’auto? Andate a una di quelle conferenze dove gli editori parlano dei loro guai di fronte a un vasto pubblico, cercate di prendere la parola, e poi dite al microfono che siete un autoeditore. Minimo minimo chiameranno la sicurezza. La differenza tra editoria e autoeditoria non sta nel sostantivo, che è identico, ma nell’aggiunta di quell’elemento auto- che vi chiude in voi stessi, come autoreferenziale, autocitazione, autocommiserarsi, autoerotismo – quanti termini negativi, tranne l’ultimo, che almeno giunge a un risultato –. Quell’«auto-» lì, proprio non va. Per questo vorrei conoscere chi ha coniato il termine, di cui vi riempite la bocca, per poi fare le solite cose che facevate prima. Ma la colpa è sua, tutta di lui, o di lei (siamo per le pari opportunità), che non fa altro che ribadire, anche linguisticamente, che siete altro, che quello che vi distingue non è l’editoria, ma che fate da soli.

Vi comprate un terreno, spesso virtuale, ficcate paletti per terra, cingete l’area di filo spinato, e state dentro. Bravi, anziché confrontarvi alla pari con un editore, vi crogiolate nell’autolesionismo, nell’autoinganno, nell’autocertificazione collettiva dell’esservi tutti fatti da soli. Lo capite che è proprio la vostra mente la prima che vi autoaccusa di non essere editori, professione a cui dite invece di aspirare?
Il problema allora qual è? Il problema è di togliere quell’auto di mezzo, girate a piedi, entrate nei saloni del libro e quando siete davanti alla hostess per il dibattito su Editoria e crisi dell’editoria, cosa fare?, non dite alla ragazza che vorreste partecipare al dibattito in quanto siete autoeditori. Dite che siete Giovanni Menestruzzi Editore, Carlo Fontecchia Editore – se questi sono i vostri nomi ovviamente. E se non siete nella lista, sicuramente non siete nella lista dei partecipanti al convegno, aggiungete che siete «Editori presso voi stessi».

Sentite come suona bene? Così pieno, fiducioso, programmatico, dinamico. Quell’autoeditore sa già di malaticcio, di triste, di sfigato, di autoambulanza. Dite invece «editore presso me stesso», e la forza di quelle esse, di quelle erre, di quelle pi (dammi una e, dammi una di) vi aprirà tutte le porte. I signori Einaudi, Garzanti, Feltrinelli non erano forse editori presso se stessi? E che diamine, pubblicate libri o costruite padelle? Togli l’auto- e aggiungi te stesso, meglio ancora pubblica con uno pseudonimo. Potrai essere Carlo Carlino pubblicato da Giovanni Menestruzzi Editore, editore presso se stesso. Tutta un’altra musica, faranno la fila per avervi al tavolo dei relatori, sia come autore pubblicato da un editore sia come editore che pubblica un autore. Vi ascolteranno e vorranno conoscere  le vostre strategie editoriali vincenti. Ma anche perdenti, non importa.

Convertiti ora al nuovo paradigma, sii tu il primo editore presso te stesso con tanto di sede legale e operativa. Il terreno è vergine, praterie incontaminate per una definizione di sicuro successo. Su Google al momento dell’uscita di questo post, c’è soltanto una ricorrenza che l’attesta. Domani ci sarò  io, il secondo, dopodiché…

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Le leggi immodificabili della natura

Bisognerebbe scrivere un romanzo ambientato ai nostri giorni, anzi precisamente oggi, che racconti di un personaggio con un ruolo lavorativo e sociale insignificante e trasparente, fenomeno diffusissimo in Italia, non dovrebbe essere difficile immedesimarsi nel suo compito di guardiano di una fabbrica dismessa e da smantellare, capannoni industriali una volta pulsanti di macchinari e operai, ridotti ora a esoscheletri silenziosi e immensi, testimonianza di un’industrializzazione fallita. Cattedrale nel deserto attraversato da strade provinciali dritte recluse tra filari di pioppi a perdita d’occhio su una pianura immensa e grigia a trecentosessanta gradi, arterie che portano nel nulla. Vie poco trafficate, dove le buche non vengono più riparate da tempo dagli amministratori locali, comuni che si ritrovano a fare i conti con una deindustrializzazione selvaggia e inattesa. In questo universo silenzioso e immutabile, sentinella solitaria e inutile, perché non c’è materiale da rubare oltre il cancello della ex ditta di materie plastiche, eccetto l’eternit che non verrà mai rimosso dai tetti, il nostro «eroe» passa le giornate metodicamente imbrigliato nella sua solitudine, riceve ancora uno stipendio che può giocarsi in poche ore del sabato alle slot machine dei bar frequentati da pensionati e vedove nel paese più vicino, cinque chilometri di curve e zanzare, dove italiani e cinesi se ne stanno andando per far posto ai nuovi italiani, extracomunitari e profughi, sistemati alla bell’e meglio negli alberghi della zona grazie al contributo statale.

In questo paesaggio naturale dove all’orizzonte terra e cielo si fondono nel grigio, tra copertoni bruciati, prostitute e trans per i pochi clienti che ancora giungono su Suv chiassosi dalle città limitrofe dove ancora qualche attività terziaria sopravvive – Rovazzi si spande a palla tra i campi di granturco –, tra semiassi di trattori abbandonati, il nostro custode intrattiene qualche timido approccio con l’edicolante del paese, una sensuale giunonica sfuggita a un film di Fellini, e con il matto del paese, detto Il Santo, che nell’acme delle sue ricorrenti crisi minaccia l’ira di Dio su uomini e bestie, predicando dal teatro a semicerchio nella piazza principale, costruito negli anni di prosperità per celebrare un festival letteratura che non è mai giunto alla seconda edizione.

Nel frattempo la natura si è ripresa gli spazi progettati dall’uomo: le radici, le erbacce, i facoceri notte dopo notte riconquistano i territori intorno alla fabbrica che già in passato li avevano visti comandare sull’area. Il nostro vigilante avverte ogni notte i grugniti dei cinghiali, sempre più minacciosi e superbi, e i fruscii delle fronde, che sembrano canti minacciosi di sirene intraprendenti.

La calma piatta di questo territorio viene turbata un giorno dall’arrivo di militari, carabinieri e troupe televisive sulle tracce di un omicida fuggito di galera e che ha già colpito a un bivacco di prostitute, colpevoli di essersi trovate sulla sua via di fuga. Improvvisamente il custode viene intervistato dalle tv, anche se non ha nulla da dichiarare, ma il suo racconto delle sensazioni notturne nella fabbrica abbandonata ispira quel clima horror di cui si nutre la cronaca nera, mentre il ricercato nel frattempo ha colpito ancora mettendo a segno una rapina in una delle ultime ville del paese.

La popolazione locale si sente minacciata, la ditta vuole rimuovere il custode dalla fabbrica isolata tra i campi per evitare guai peggiori. Questo è vissuto dal protagonista come l’anticamera del licenziamento e si oppone. Un giornalista segue il suo caso ed evita la rimozione, ma l’uomo viene armato per salvaguardare la sua sicurezza. Portando una pistola alla cintola ora si sente importante, il paladino del paese; fa colpo sulla giunonica, si infrattano di notte in uno dei tanti capannoni della ditta. E in quel momento si ritrovano davanti il pregiudicato: l’uomo non ha intenzioni minacciose, non è armato, sembra solo divertito dall’amplesso.

Il custode uccide l’uomo e poi anche la donna. Li seppellisce all’interno della fabbrica. Il giorno dopo l’edicola resta chiusa, le ricerche della donna risultano vane, la colpa viene fatta ricadere sull’evaso, che sembra svanito nel nulla. L’uomo rimedia ancora qualche intervista, ipotizza che i due potessero essere divenuti amanti, in fondo era una donna esuberante e tutto è possibile con personaggi così particolari e fantasiosi. Man mano che i fatti di cronaca si allontanano, i giornalisti scemano, le ricerche della donna e del delinquente si diradano, le erbacce salgono lungo il filo spinato della fabbrica, i facoceri e i loro cuccioli minacciano le colture con sempre maggior frequenza. Alle elezioni si presenta un movimento nuovo che vuole rimettere in moto il territorio, da tempo abbandonato a sé stesso. Anche gli immigrati se ne sono andati da questa fetta d’Italia senza speranza.

Il custode, tornato anni dopo davanti alla fabbrica di cui era l’unica presenza, non prova alcuna emozione o pentimento per il duplice omicidio che ha commesso. Il Santo, ormai vecchio, tiene il suo consueto sermone. Qualche ora dopo, in piena notte, a qualche chilometro di profondità nel sottosuolo, la terra silenziosa si sveglia energicamente per andare a scoprire cosa è successo nel frattempo in superficie a millenni di distanza. Troverà che piante e facoceri dominano ancora incontrastati, secondo le leggi immodificabili della natura.

 

Eh sì, ci vorrebbe qualcuno che avesse voglia di scriverla una storia, non dico questa, più o meno come questa.

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Il poco di buono dei problemi a monte

Ho letto ieri da qualche parte, forse sul blog Scrivere per caso – ma non ve lo do per certo poiché leggo spesso distrattamente – che i problemi dell’editoria stanno a monte: se si pubblica poco di buono è dovuto al fatto che si scrive poco di buono e allora gli scrittori, professionisti e no, dovrebbero proporre agli editori o direttamente al pubblico opere più accurate, meditate, profonde.

Innanzitutto bisognerebbe smetterla col dire che i problemi stanno a monte. Io noto un sacco di problemi a valle e non parlo solo dell’inquinamento, del traffico congestionato, del caos in cui siamo costretti a muoverci, della siccità che secca i fiumi e mette a repentaglio le colture, dell’esaurimento nervoso che colpisce i bipedi e i quadrupedi. Parlo proprio di libri: Corona è a monte e ha successo, anche Cognetti sta su e ha vinto lo Strega. C’è chi è stato un anno sull’altipiano e ce lo ricordiamo ancora. E Buzzati appena poteva passeggiava tra i monti del Bellunese.

Che succede, invece, a valle? A valle la gente non legge e altra gente, forse la stessa, scrive. Aggiungiamo il nuovo salone del libro che non ha raggiunto grandi vette; che dobbiamo continuamente inventarci formule artificiali come Bookcity per costringere i metropolitani a dichiarare #ioleggoperché (gli chiederei anche #ioaccettolinquinamentoperché, #iovotorenziperché, #iomangiogiapponeseperché, #ioscrivolibriperché tanto che ci siamo). E qui mi fermo.

Di inventarci un Bookmountain invece non ne sentiamo affatto il bisogno: ma perché non ne sentiamo il bisogno? Perché a monte non ci sono problemi, al massimo c’è Cannavacciolo che rimette in carreggiata qualche piatto del contadino da incubo. Piccole sbandate, insomma. Le librerie chiudono a valle, in centro città e nel centro dei centri commerciali delle città, che è il nuovo centro di tutte le valli. Ditemi la verità: avete mai sentito di una libreria che chiude a duemila metri? Ci sarà un motivo perché in quota restano aperte. Perché lì entra aria pura e i romanzi sono di respiro, anche internazionale.

E poi si dice che si legge poco di buono. Anche qui, ma cambiamo punto di vista, dio santo: pensiamo al tanto di cattivo che ci siamo evitati grazie al poco di buono. Se è poco lo è proprio perché è buono. Anche il contrario: è buono perché è poco, fosse di più scadrebbe in bontà. Paradossalmente, se ci fosse anche il tanto di buono, qui a valle, e chi avrebbe il tempo per leggerlo con i ritmi serrati a cui ci costringe la vita in pianura? Ma là in alto no, i ritmi rallentano, la frenesia scompare, le giornate girano lente, la natura ci fissa immobile. Alla gente di montagna, si sa, basta poco, e così non serve neppure il tanto di buono che il poco di buono è quasi d’avanzo. A valle, al contrario, dobbiamo accontentarci del poco di buono. E so già che un giorno arriveremo al nulla di buono, dato che i problemi dell’editoria da che mondo è mondo stanno a valle, e non a monte. Garantito.

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Allah

L’ente supremo dei maomettani, da non confondersi con quello dei cristiani, degli ebrei, eccetera.

Ambrose Bierce

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Mio cugino

Mio cugino è eclettico.

Mio cugino ha cinquant’anni, si taglia i capelli da solo come viene viene, e porta gli zoccoli. Mio cugino vive con i genitori, ha una laurea scientifica ed è diplomato in chitarra classica al conservatorio. Mio cugino tiene concerti gratuiti negli androni dei palazzi e fa risuonare la musica barocca nella tromba delle scale delle case popolari. Mio cugino è impiegato comunale, una volta ha vinto un concorso che poi è stato annullato perché bisognava assumere un candidato con la raccomandazione.
Mio cugino non ha mai avuto una ragazza.

Mio cugino dice che il tagliaerba più ecologico è un gregge di pecore nel prato. Mio cugino è pubblicista. Mio cugino gestisce senza guadagnarci nulla sei siti che trattano di iniziative ecologiche perché ci crede fermamente. Mio cugino è soprannominato dottor Divago perché quando parla apre tante finestre di Windows, ognuna con un argomento, ma poi non ne chiude neanche una, e finisce che si impalla. Mio cugino ha sempre ragione lui.

Mio cugino spiega ai bambini delle elementari come piantare un seme per avere l’ombra dagli alberi tra vent’anni, così faremo tutti a meno dei condizionatori. Mio cugino va a tutte le mostre d’arte che ci sono a Milano e poi le racconta in un blog in centomila battute che nessuno leggerà. Mio cugino fa cinquanta chilometri al giorno in bicicletta per andare e tornare dal lavoro sia che ci sia il sole sia che piova. Una volta è anche caduto e l’hanno portato d’urgenza in ospedale.

Mio cugino crede nell’Immacolata concezione e gli sta antipatico Sallusti. Mio cugino non sopporta i concerti classici dove mettono i microfoni su lunghe aste proprio davanti ai musicisti. Mio cugino porta un bicchiere con sé ovunque vada, perché è da cafoni bere l’acqua direttamente dalla bottiglia. Mio cugino dal 2006 misura le precipitazioni atmosferiche nel suo giardino e poi confronta i suoi dati con l’osservatorio idrogeologico di Canzo. Mio cugino conta le lucciole e dice che dieci anni fa ne vedeva anche undici tutte assieme, ora invece volano solitarie, tra qualche anno non ce ne saranno più se non facciamo qualcosa per l’ambiente. Mio cugino non mangia quasi niente ma gli piace lo spumante dolce. Mio cugino è stato appena operato di cataratta senile ma non vuole mettere il collirio, infatti vede tutto velato.

Mio cugino non ha una pagina Facebook, non ha mai posseduto un telefonino, non gli piacciono le foto in digitale. Mio cugino sarebbe il protagonista perfetto di un romanzo che racconti una qualche verità. Mio cugino è meglio di me perché crede ancora di poter cambiare il mondo.

Che poi, a pensarci bene, mio cugino non è neppure mio cugino.

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