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Billy Budd, la ballata finale

Siamo agli sgoccioli ormai, manca poco alla fine del romanzo. Uscito di scena Claggart già da qualche capitolo, e Billy Budd da pochissimo, in scena non resta che il capitano Vere. Ma il capitolo 28, brevissimo, lo coglie sul ponte della Bellipotent mentre la sua nave incrocia quella da guerra francese della Athée. Lo scontro a fuoco che ne deriva vede prevalere la marina britannica, ma il prezzo da pagare al romanzo è la morte del capitano stesso, dopo un’agonia febbricitante, invocando più volte il nome di Billy Budd.

E così i tre protagonisti, dal cui intreccio nasce questa vicenda drammatica, finiscono nell’oblio dei secoli. Un po’ come in Moby Dick, dove solo Ismaele sopravvive al mostro per raccontarne le gesta. Qui avviene qualcosa di simile. Svaniti Claggart, Billy e Vere, resta solo qualche resoconto indiretto e offuscato del loro passaggio nel mondo: una versione ufficiale dell’accaduto, dove si ipotizza un tentativo di ammutinamento sulla Bellipotent orchestrato da Billy, scongiurato da Claggart, che paga la sua fedeltà alla marina militare con una pugnalata mortale sferratagli da Billy stesso, e l’immediata condanna all’impiccagione decretata dal capitano. Ed è Billy il malvagio, il simbolo del male. Ma a questa versione ufficiale fa da contraltare tra i semplici marinai una ballata, prima ripetuta oralmente e poi giunta addirittura a pubblicazione, dove invece Billy ritrova il ruolo dell’innocente capro espiatorio delle nefandezze del mondo.

Possiamo consolarci con la constatazione che la pubblicazione ufficiale del complotto ordito dal marinaio William Budd fu presto dimenticata, mentre la ballata che narra la storia di Billy Budd marinaio, viene ancora cantata sui ponti delle navi dai marinai semplici quando smontano dalla corvée? Credo proprio di sì.

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Billy Budd, nella profondità

Come già per Claggart, affidato al mare dopo la morte, ora tocca a Billy Budd scivolare nell’acqua e inabissarsi. Che i gabbiani volteggino a lungo sulla spuma prodotta dalla discesa della sua bara scuote profondamente gli animi dei marinai, che vedono nelle loro grida e nel loro volteggiare basso un significato sulla morte di Billy più profondo, inafferrabile e complesso della semplice ricerca di cibo.
Così serve tutta la maestria dei gradi superiori nell’impartire ordini perentori e manovre immediate per sradicare dalle loro menti la figura di Billy Budd e farli tornare ai gesti consueti e meccanici della navigazione. Quasi che l’occupare i pensieri con manovre di bordo allontani il rischio di riflettere su quanto successo al povero marinaio e di esprimere giudizi personale su come si è giunti alla sua condanna sommaria e morte ingiusta.

Mi ricorda tanto i telegiornali quando alla notizia di una sciagura umana segue immediatamente la cronaca sportiva. L’euforia giocosa come sentimento finale dopo tanto dolore. Da attaccare all’anima come un post-it fino a domattina.

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Billy Budd, l’impiccagione

Siamo giunti quasi in fondo al nostro lungo viaggio in Billy Budd. Dopo l’omicidio, il processo sommario e la sentenza di morte, non resta ora che eseguire la condanna per impiccagione sul ponte della Bellipotent.
Le ultime parole di Billy Budd in punto di morte sono di ammirazione per il capitano Vere, l’uomo che ne ha decretato la condanna: «Dio benedica il capitano Vere!». E a rispondergli, come in un coro greco, è l’intero equipaggio, ripetendole con una sola voce. Poi il segnale muto di eseguire la sentenza. Un attimo dopo Billy Budd, l’avvenente marinaio, pende immobile dal pennone senza neppure un involontario spasmo del corpo, mentre un’alba rosa sorge sul mare.

Qui ha termine la vita di Billy Budd, marinaio. E lo stacco è brusco e crudele perché nel capitolo che segue, siamo al 26, pochi giorni dopo l’impiccagione il commissario di bordo e il medico discutono a mensa filosofeggiando su questi spasmi involontari che non si sono manifestati in modo evidente durante l’impiccagione. Parlano di Billy come se guardassero un oggetto da esaminare chirurgicamente e senza trasporto emotivo. Questo spostare l’attenzione per un uomo da un piano quasi allegorico e spirituale a un altro ferocemente materiale forse è la violenza peggiore che il narratore poteva compiere su Billy.

A onor del vero il chirurgo, quando la discussione diventa troppo astratta e disumana si inventa una scusa per interrompere il dialogo che ucciderebbe una seconda volta in pochi giorni non solo il corpo ma anche l’anima dello sfortunato protagonista. Mi ricorda certe interminabili discussioni di convenienza politica sul tema dell’immigrazione negli studi televisivi, con alle spalle la gigantografia del bambino morto annegato su una spiaggia del Mediterraneo. Dove in pochi attimi si passa dalla commozione umana al cinismo della ragion politica.

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Billy Budd, il bacio

Billy Budd ora è in ceppi. Segregato in un punto oscuro della nave, isolato dall’equipaggio, sorvegliato da una guardia, solo il cappellano militare può avvicinarlo per portargli un’ultima benedizione. Ma di benedizioni quest’umile marinaio non ne ha bisogno: per il religioso è già in paradiso, è già angelo. Veste anche da angelo – blusa e calzoni di tela bianchi –, un angelo immacolato.

Il gesto più espressivo del libro si trova in questo capitolo, il ventiquattresimo, quando il cappellano «chinatosi, baciò sulla bella gota il suo simile, un criminale per la legge marziale».

È un bacio vero, spontaneo, il suo. L’ultimo bacio prima della morte, ma opposto nell’intento a quello di Giuda alla vittima sacrificale innocente.

Chissà se questo gesto è scaturito da una scrittura a tavolino di Melville o se invece non nasca spontaneo dal personaggio del cappellano. A me sembra spontaneo, sincero, generoso: il che è una straordinaria rarità sia nel mondo della finzione letteraria sia in quello reale dove spesso si mostrano affetti affettati, cuciti addosso ai personaggi e anche a noi stessi – personaggi della fiction reale –. Baci che non originano dai cuori.

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Billy Budd, una bara grigia

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«… si può aggiungere che al momento opportuno il mastro d’armi venne affidato al mare con tutti gli onori funebri confacenti al suo grado di marina».

C’è questo breve cenno a Claggart, il «cattivo» di Billy Budd, mentre la sua bara sprofonda in mare aperto consegnandolo alle tenebre. E così uno dei tre protagonisti del romanzo se ne esce di scena in punta di piedi nel capitolo 23 del libro. Dopo essere stato per molto tempo al centro della storia e delle osservazioni del narratore, pagine e pagine attorno alla sua figura, appena riceve il colpo mortale da parte di Billy Budd, il mastro d’armi sparisce completamente dalla storia. Nessuno lo piange, o recita una preghiera per lui, o ha un minimo cenno di pietà per la sua vita improvvisamente recisa senza un motivo evidente. Sembra quasi che cessata la funzione narrativa che Melville gli ha assegnato, la parte del cattivo, non valga la pena ricordarlo neppure come cattivo. E qui mi domando come ci saremmo comportati noi aspiranti.

Non l’avrei lasciato andare così facilmente. Si dice sempre, anche nei blog degli aspiranti scrittori, non solo nei manuali di scrittura creativa, che bisogna amare i propri personaggi, o almeno provare nei loro confronti un sentimento profondo, anche di odio, ma profondo. Qui, però, mi pare che Melville non solo non ami Claggart, ma neppure provi quell’avversione nei suoi confronti che gli faccia esprimere un giudizio tramite la bocca di qualche altro personaggio del romanzo. Sparisce e basta, come un sacco vuoto, puro involucro, avanzo del rancio gettato in mare e la nave va via leggera, come se Claggart non fosse mai apparso sulla scena. Già il fatto che vi scriva queste note su di lui nel capitolo dove tutto l’equipaggio viene radunato sul ponte per apprendere dell’esecuzione capitale che da lì a poche ore vedrà protagonista Billy Budd, la dice lunga sulla mia visione del tutto opposta a quella di Melville. Voi, lettori, lascereste andar via così il mastro d’armi John Claggart, dopo averne condiviso i pensieri per tante pagine del romanzo?

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Billy Budd, Abramo e Isacco

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Chi ha seguito lo scavo, non so se utile o inutile, di tutta la vicenda occorsa in Billy Budd fino a questo punto, sappia che il capitolo 22, quello successivo al processo che sentenzia la condanna a morte per Billy, narra brevemente la comunicazione al condannato da parte del capitano Vere della pena capitale per impiccagione.

Qui i due uomini, giudice e condannato si ritrovano faccia a faccia lontani da occhi indiscreti. Che cosa si saranno detti? Uno scrittore mediocre avrebbe certamente mostrato il dialogo: giustificazioni sociali, giustizia etica, considerazioni psicologiche, dogmi di fede, filosofie morali, tutti spunti ottimi per dividere il mondo in buoni e cattivi. Forse l’avremmo fatto in tanti, di sicuro l’avrei fatto io. Melville invece si ferma sulla soglia, non entra in cabina, non origlia le parole tra i due uomini, né osserva i loro gesti. Si piazza di guardia oltre la porta affinché nessuno possa entrare nel mistero della loro conversazione.

«Oltre alla comunicazione della sentenza, cosa ebbe luogo durante questo colloquio non si seppe mai», dice il romanzo.

Se non si può raccontare la verità esatta restano però le ipotesi. Un padre che parla al figlio – come Abramo a Isacco prima del sacrificio –? Oppure un giudice al condannato? E implora il perdono della vittima per la sentenza ingiusta o spiega i motivi legali della pena indifferibile? Pregano forse assieme un dio che accolga con benevolenza l’anima rea del sangue di Claggart?

Il narratore tace su tutti questi punti. Sappiamo solo che all’apertura della porta oltre la quale eravamo di guardia, appare più sollevato il volto del condannato di quello del suo giudice.

Pensandoci bene dovrebbe essere sempre così, non solo nei romanzi.

 

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Billy Budd, il processo

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Tralasciando il brevissimo capitolo 20 di Billy Budd, dove il chirurgo di bordo sospetta la pazzia del capitano Vere, sconvolto dalla morte di Claggart per mano di Billy Budd, delitto avvenuto sotto i suoi occhi qualche minuto fa, nel capitolo successivo – tra i più lunghi del libro – va in scena il processo, e l’atto finale del romanzo.

Da una parte l’imputato, prostrato nell’animo per quanto è avvenuto, dall’altra tre ufficiali che fanno da giudici, nel mezzo lo stesso Vere, unico testimone dell’accaduto. C’è in gioco la vita di un uomo, ma soprattutto la legge marziale, e il pericolo che una sentenza di clemenza o che rimandi ad altri tribunali di terra la decisione in merito all’innocenza o alla colpevolezza di Billy Budd, non è percorribile. Tutto sembra già scritto come in un libro. E questo da lettore non lo accetto, anche se è giuridicamente logico accettarlo.

Il narratore lo dice subito, senza veli: «Nell’imbroglio di circostanze che precedettero e tennero dietro l’evento a bordo della Bellipotent, e alla luce di quel codice marziale col quale andava formalmente giudicato, innocenza e colpevolezza personificate da Claggart e da Budd in effetti si scambiavano il posto. Da un punto di vista legale, la vittima evidente della tragedia era colui che aveva cercato di rendere vittima un uomo irreprensibile; e l’atto inconfutabile di quest’ultimo, considerato sotto il profilo navale, costituiva il più nefando dei crimini militari».

Se così è, e così è, non c’è storia: Billy Budd viene condannato all’impiccagione, punto. Due considerazioni. La prima, finora tutto era sfumato in questo romanzo: azioni, personalità, passato e presente, storia e cronaca, bene e male. Ora, dopo il colpo mortale inferto di Billy su Claggart, tutto è lineare, procede verso un unico finale già scritto da sempre. Per questo dico che, come ripete nella frase sopra lo stesso Melville, i due personaggi si trasformano in due tipi, personificazioni del Bene e del Male. Nulla più.

Secondo, mi viene in mente un fatto di cronaca di qualche giorno fa, che scuote le coscienze di tutti e mi fa recuperare il senso di questo classico, che è un classico appunto perché continua a parlarci del presente: penso all’uccisione di un giovane da parte di un marito fuori di sé per la perdita della moglie a seguito di un incidente d’auto causato proprio da quel giovane. Anche qui, come nella finzione, chi è il colpevole e l’assassino? Dove sta bene e male? Abbiamo due colpevoli e vittime contemporaneamente?
Non si tratta dello stesso caso, ovvio: la vita non segue una trama già scritta, si muove a caso, percorrendo soluzioni irrazionali e insondabili. Ecco, questo processo mi fa venire in mente quello che altri hanno detto e scritto e inneggiato sui social riguardo a questo delitto.

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Billy Budd, un uomo pericoloso

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Non vi ho detto ieri, ma ve lo dico oggi, che il capitano Vere, dopo le accuse mosse da Claggart a Billy Budd, decide di convocare nel suo alloggio entrambe le parti per sentirne le ragioni, metterle a confronto e scoprire negli atteggiamenti dei due uomini quale sia la verità riguardo alla pericolosità di William Budd. Davvero è una canaglia, in grado di guidare un ammutinamento tra i coscritti della Bellipotent? O al contrario, Claggart è un mentitore, che per qualche oscura ragione ha in odio Billy per un torto subito, e si è inventato questa storia solo per metterlo in cattiva luce agli occhi del capitano? In ogni caso c’è in gioco la vita di uno dei due uomini, questione non da poco.

Così se li ritrova davanti e invita il mastro d’armi a ripetere le accuse guardando negli occhi l’accusato. Con misura e tranquillità Claggart ripete le sue accuse, che all’inizio Billy Budd nemmeno sa comprendere. Quando poi capisce qual è la posta in gioco non sa come replicare. E qui ecco l’altra questione aperta dal narratore, e finora non sfruttata. Claggart ci sa fare con le parole, mentre Billy Budd, che la natura ha dotato di corpo splendido e animo candido, ma gli ha negato una lingua sciolta, non riesce nemmeno a proferire una frase di senso compiuto. La balbuzie, difetto fisico del marinaio al pari di altri con cui potremmo vestire anche i nostri personaggi, diventa l’ostacolo principale alla difesa non solo delle sue idee e azioni, ma della sua stessa vita. Se vivere o morire dipende ora dal saper parlare, Billy Budd è già un uomo morto. «Parla marinaio!», lo esorta Vere. Difenditi, attacca, confuta, discolpati. E anche le sue rassicurazioni paterne, vista la difficoltà nella pronuncia – «Non c’è fretta ragazzo mio. Con comodo, con comodo» – non fanno che rendere più drammatica la situazione. Che giunta al culmine si trasforma in un pugno improvviso che Billy Budd, disperato, sferra sul volto di Claggart, causandone la morte.

Ora potremmo dire che la situazione di Billy Budd è compromessa. Ma non è questo che mi ha colpito, quasi ferito. La ferita viene invece dall’uso disinvolto, strumentale, che il narratore assegna a John Claggart. Finora è la personificazione del male, quasi allegorica. Tutte quelle pagine dedicate a lui e ora lascia la scena con un colpo di scena, scusate il gioco di parole, inaccettabile. Morto sul colpo, vittima dell’innocenza.

La prima reazione che mi suggerisce, da lettore quale sono, è che il Male pur di vincere sul Bene, sa sacrificarsi. Solo così, morendo – non riesco a trovare altre soluzioni – Claggart può incastrare Billy. È questo lo scacco matto del nero, la mossa rischiosa ma vincente, che da tempo era preparata? Offrire se stesso, il proprio corpo al nemico, la guancia evangelica, pur di punirlo eternamente. Billy Budd, angelo sterminatore? Bene e male cosa sono se non vuote categorie che solo le azioni umane riempiono di significato? E l’azione umana qui è l’omicidio.

Vi lascio con queste domande aperte. Non voglio trovare soluzioni. Ora ci sarà, presumo un processo sommario, guidato – forse pilotato – dal capitano Vere, unico testimone di quanto è successo. Ma la verità di questa storia, se allegorica dev’essere, non la voglio trovare nell’allegoria più ovvia, direi banale: il Bene ingiustamente perseguitato. L’ira di Dio che si abbatte sul cattivo tramite la mano pura di Billy Budd, non è essa stessa opera del Male?

Questa inversione delle parti la vedo solo io?

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Billy Budd, una partita a scacchi

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Quel qualcosa di decisivo che doveva scaturire nel capitolo 18 di Billy Budd è in effetti scaturito. Dopo tante descrizioni, riflessioni e pagine siamo giunti al dunque: Claggart, il mastro d’armi, decide di comunicare al capitano Vere importanti informazioni su un marinaio in odore di ammutinamento. Sono pagine potenti, a mio giudizio. Il narratore, così ricco di sfumature quando si è trattato di entrare nelle pieghe della natura umana per fornircene uno spaccato particolare in questi personaggi, è altrettanto abile a rendere credibile, nervoso, carico di tensione autentica il dialogo tra i due personaggi nel denunciarne un terzo, Billy Budd.

Paziente come un ragno Claggart tesse la sua tela per invischiarci il capitano Vere. Quest’ultimo non è da meno per sfuggirle: da subito giudica repellente l’uomo che gli sta parlando di ammutinamento in atto. Mentre l’altro parla per vie indirette, Vere prepara già le contromosse. Ma, come è detto all’inizio del romanzo, è appena avvenuto l’Ammutinamento del Nore, e a questo fa riferimento Claggart per ottenere tutta l’attenzione e la premura di Vere, poiché sa di non poterne ottenere la fiducia. Si rivela così fondamentale in questa storia privata quel fatto storico che qualcuno all’inizio ha considerato una digressione inutile del romanzo. Invece è proprio quello l’episodio centrale, la leva per incastrare Billy Budd.

Il capitano nemmeno vuole che venga nominato il Nore durante questo colloquio, tanto ne teme le ripercussioni sulla Bellipotent, la sua nave che venera come un figlio. Il Nore è il peccato mortale della Marina britannica che non dovrà mai più ripetersi altrove. E quindi non può sottrarsi dal pericolo che il mastro d’armi gli sussurra. Anche se fin dal primo momento dubita che Claggart dica il vero, il suo ruolo di responsabilità a bordo non può non tener conto delle sue parole.

E qui c’è il punto di svolta della storia: «Voi dite che a bordo c’è almeno un uomo pericoloso. Ditene il nome». «William Budd, vostro onore». Da questa rivelazione, a cui non crede, ma che non può ignorare, inizia la seconda anche se breve parte del romanzo. O almeno ha tutta l’aria di voler essere tale dopo una così esplicita rivelazione.

Quello che mi pare strano è che il capitano Vere propenda dalla parte dell’innocuo marinaio, pronto a colpire inesorabilmente la menzogna. «Badate a cosa dite. Ora come ora e in casi come questo, esiste un braccio di pennone per il falso testimone». Questa partita a scacchi giocata tra il capitano e il suo sottufficiale sul ponte di poppa della nave vede i pezzi ben disposti. Il capitano ha il bianco, ha l’apertura a suo vantaggio. Se il nero rischia un attacco così esplicito e mortale è perché ha in mente una mossa che l’avversario non è in grado di intuire.

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Billy Budd, oltre la sagacia

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«Qualcosa di decisivo doveva accadere».

Così si conclude il diciassettesimo capitolo di Billy Budd, aprendo la porta su un evento che farà muovere una macchina narrativa che finora ha soltanto scaldato i motori percorrendo pochi metri. Dopo 70 pagine e ben 17 capitoli il narratore ci avverte che qualcosa di importante succederà nel prossimo. Eppure sono giunto fin qui con le aspettative intatte, immacolate come l’anima di Billy Budd.

Mi chiedo quale sia il segreto di questa sospensione che non mi spazientisce. Forse è il fatto che Billy Budd è un classico e non si può criticare? Deferenza verso Melville? Se l’autore fosse stato, chessò, Mario Rossi aspirante scrittore all’esordio o, peggio, autopubblicato, gli concederei tutta questa paziente fiducia? Non avrei invece già richiuso il libro?

Si potrebbe tentare, perché non ci provate?, a ripetere l’esperimento con un altro libro, magari in self-publishing. Ecco, capitolo per capitolo iniziando dall’incipit tutte le riflessioni che ti vengono a partire dalla pagina per capire se esiste l’abbondanza, la ricchezza, la profondità, la trama, le perplessità che abbiamo trovato (o non trovato) in Billy Budd.
Chi se la sente di allargare l’analisi ai contemporanei, che magari vengono a parlare, a spiegare, a integrare e perché no a contraddire la lettura? Datemi un libro e vi sposterò il mondo, almeno il mondo di quel libro.

Ora ho paura che questo non sia possibile, si rischierebbe troppo da una parte e dall’altra. Meglio un sintetico quindi generico e sicuramente inutile mi piace che in fondo lascia ognuno padrone del suo sogno di aver letto o scritto un libro degno, importante o anche solo che contiene una storia divertente.

 

Del capitolo 17 dico solo in aggiunta che si rivolge a una categoria precisa di lettori: i sagaci.

Sono quelli di noi – sono io – «che possono pensare che sarebbe stato più che naturale per Billy Budd provare a sondare qualcuno degli altri coscritti forzati allo scopo di scoprire quale fondamento, se c’era, avessero gli oscuri accenni dell’emissario in merito a tramare slealtà a bordo. Sì, i sagaci possono pensarlo. Ma qualcosa di più, o piuttosto qualcosa d’altro della mera sagacia è forse necessario per la debita comprensione di un carattere come quello di Billy Budd». Insomma, per Melville non si può capire Billy con la semplice intelligenza, serve qualcos’altro. Sì, ma cosa?

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