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Per scrivere bene bisogna leggere bene: spunti e riflessioni sull’argomento

Un amore pasticciato

Che con te sarebbe stata dura, su questo non ho mai avuto dubbi. Ma mi illudevo che come con le altre prima di te, neppure loro semplicissime perché evidentemente mi piace ritrovarmi in rapporti complicati, una volta trovato il feeling, dopo averti respirato, come si dice, stropicciato per un po’, tutto sarebbe filato via liscio fino in fondo. E invece no.

Sembra che tu lo faccia apposta, godi nel prenderti gioco di me, giochi al gatto col topo, ti piace farmi provare un senso di inferiorità, rendermi indegno della tua classe, del tuo charme. Mi mostri tutta la tua raffinatezza e mi fai credere che la vuoi condividere con me, come se ti importasse davvero elevarmi al tuo rango. Mi seduci, mi dai piacere, fai giochi proibiti con me, mi porti al limite. E poi improvvisamente cambi tono, svolti senza motivo, fai la preziosa, ti specchi in mille immagini e fai di tutto per farmi sentire stupido e deluso. In quei cambi di ritmo sei indecifrabile, non ti capisco più, mi parli fitto fitto senza preoccuparti se io ti segua o no, indifferente al fatto che io possa dirti sì no, non essere d’accordo con te. Ma tu arrivata a quel punto te ne freghi di chi hai davanti, egocentrica quale sei mi parli sopra, e intuisco che di me, a te, in fondo non è mai importato nulla fin dall’inizio. Ti sono utile ma non necessario. In quei momenti ti odio, vorrei lasciarti per sempre, cercarmene un’altra più adatta, più del mio livello. Mi stupisco anzi del perché non lo abbia già fatto, cosa mi trattenga dal separarmi da te e chiudere questa relazione. Ma un motivo c’è per non smettere: sono orgoglioso e frivolo anch’io: voglio mostrare a tutti che sono alla tua altezza, che valgo molto, che posso starti a fianco. Voglio essere ammirato anch’io, che dicano di me con una punta di invidia, guarda Helgaldo con chi se la intende. Mentre noi…

L’altro giorno ci eravamo messi sul divano, ricordi?, che intensità. Pensavo, finalmente, che il feeling tanto atteso fosse giunto, che ora ci capivamo. Tu con me, io con te. A filo doppio. E tu, allora, devi aver avuto il mio stesso pensiero, e quindi solo per farmi dispetto te ne sei uscita con quella Ines, che mi ha infastidito tanto.

«La Ines. L’avventura urbana. Dalle chiarità mattutine del Galilei, quando l’officio e il mistero lateranense, quando la verde allegrezza del sagrato accolgono dentro le mura il burino col divoto segno della croce, rattenuto il ciuccio per un attimo, ih! dai fastigi d’oro, a vespero, o di rubino, e dalle cavate piene del Maderno, del cui arco è scaturito nei secoli senza ritorno, in lode a Maria Madre, l’inno indelebile; dai PV e dai BM e dai dieci buchi der disco der telefono, e dallo scatolone della radio che aveva messa fuori uso un quattro vorte, la premeditante coturnice s’era portata a casa una certa sbrigativa attitudine a rammendar le calze alla finanziera, cioè prendendo er buco a giro largo, coll’ago e cor filo; e poi, daje, dopo quel rapido periplo la tirava a gloria e ce mozzicava subito er filo, co li denti. Un rinnaccio de classe!».

Ho capito solo calze.

Allora ho sbottato, adesso basta, stupida prosa leziosa! Desisto, se è questo che vuoi. Vai avanti pure senza di me, ma non ne troverai un altro così paziente e disponibile, che si sforza di capirti. Ora è finita, non ti voglio più vedere in giro per la casa. Ti metto dietro una pila di libri, non vedendoti più starò meglio, mi darò a uno Stephen King, a un Camilleri, a uno qualsiasi di quelli che stanno nelle classifiche estive dei più letti. Il primo che trovo, giuro, lo porto anche a letto con me: come si dice dalle parti nostre?, chiodo scaccia chiodo.

Eppure so che ritornerò da te pentito, già mi mancano le tue parole. Non sarà domani, né dopo, ma tornerò da te. Un pasticciaccio infinito di alti e bassi, questo.

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La nota sul registro

Devo essere proprio masochista se dopo ripetuti tentativi falliti cerco ancora di leggere Gadda senza traduzione a fianco. Il problema di Gadda – e a questo punto pure il mio – è di registro. Come usare un registro linguistico, letterario, espressivo dovrebbe essere chiaro a chiunque scriva o parli. Sul parlato, ognun per sé e dio per tutti. In casa mi esprimo come mi viene, con gli amici pure, in ufficio anche. Non mi pongo il problema, credo di usare un registro comune o medio che dir si voglia. Non mi servo di parolacce né di forme dialettali, che dovrebbero rientrare in un registro volgare o basso; e non mi sogno di parlare come un professore in cattedra perché non sono nemmeno laureato. Dico vado in ufficio, e non mi reco; quindi parlo come mangio, per lo più in scatola. In medio stat Helgaldus, insomma.

Quando invece si scrive, e soprattutto si scrive per gli altri, tutto cambia. Cerco di sorvegliare la mia scrittura, come in questo stesso post. Presumo che le parole che state leggendo continuino a far parte di un registro medio, almeno a me così sembra. Però mi piacerebbe poter disporre di tutta la gamma di registri, magari a soli fini letterari: registro solenne o aulico, alto (ma alto non è sinonimo di solenne?), medio o comune (appunto il mio), basso (ti do del tu… ma consiste in questo?), volgare (cazzo sarà mai questo registro?). Però poi sento anche parlare di registro burocratico, letterario, economico, settoriale: e qui basta aggiungere un aggettivo e chissà in quanti modi si può scrivere. Leggevo ieri un racconto che iniziava con cazzo, e poi proseguiva normalmente. Mi chiedo, e vi chiedo, se sia giusto perché io vado subito in confusione e non so più se sia coerente o no.

Ma torniamo a Gadda, da cui sono partito. Dunque, non riesco a leggerlo per un problema di registro. Ma se quello di Gadda è un registro alto, allora vuol dire che non potrò mai aspirare a scrivere con un simile registro: già mi serve il traduttore per leggere, figurarsi per scrivere. Direte voi: ma che cosa c’entra ora il traduttore con uno che scrive in italiano? Be’, italiano…

«Il giorno di lunedì 5 ottobre 1915 un tempestar di colpi sull’uscio fece levar il capo e rivolgerlo alla stupenda Zoraide ch’era seduta sur una scranna impagliata e agucchiava». Non aggiunto altro, basta questo. Il quando l’ho capito: ma sarà un registro burocratico, dal vago gusto di verbale con la preposizione di a seguire giorno? E poi già l’uscio a me pare alto, avrei sicuramente scritto porta, anzi battevano alla porta, un tempestar di colpi sono al di sopra delle mie possibilità creative. E di quel fece levar il capo, che mi dite? A me fa abbassar la testa. Per voi è comune, pacifico, questo modo di esprimersi? E quella che alza il capo si può mica chiamar Teresa, Anna, Chiara. Teresa, Anna, Chiara possono al massimo alzar la testa: solo una Zoraide può levare il capo, come una divinità greca. E in più splendida divinità, mentre le Terese, le Anne, le Chiare se proprio van dell’estetista possono apparire al massimo belle. E una divinità come Zoraide potrebbe mai sedere su una sedia? Siate onesti: solo sur una scranna, anche se impagliata, potrà posare quello che a questo punto ho timore a nominare, perché chissà come lo chiamerebbe Gadda. No, sedere non si può per una Zoraide, e allora qual è il termine alto ma non oltraggioso per definire quella parte dove non batte il sole?

E ora arriviamo al traduttore: che cosa fa la nostra dea Zoraide sur una scranna impagliata? Agucchia. Siamo alla terza riga e io devo già consultare il dizionario. Magari voi agucchiate tutto il giorno, invece io stiro sì ma agucchio no. Perché agucchiare vuol dire, l’ho letto sul vocabolario per la prima volta in vita mia, lavorare con l’ago o con i ferri da calza, per svago e senza particolare applicazione. Vabbè, agucchiare da ago, che poi sarebbe l’agucchia, cioè la voce antica per ago.
Vi do per certo che Helgaldo avrebbe scritto un banalissimo cuciva. Ma cucire non è agucchiare, perché agucchiare esprime con precisione uno stato emotivo particolare che il semplice cucire non può raggiungere.

Per farla breve: poco oltre ho dovuto riaprire il vocabolario per succinto, riferito non all’abito ma alla postura; per ramato, riferito ai capelli; per un distirar di pettine; per una floridezza proterva. Ed ero a pagina 1 di un testo scritto da un italiano in italiano. Poi me la chiamano anche lingua madre, l’italiano… vorrà dire che non ho patria, anzi sono un apolide.

Lo confesso: ero rimasto fermo al si lavicchia di decurtisiana memoria. Ma dove vuoi andare, caro Helgaldo, se il linguistico registro non sai usare?

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Il piacere della non lettura

Il momento più bello per un lettore è l’intervallo di tempo che separa la non lettura dalla lettura, quando riponiamo il libro appena terminato e iniziamo a pensare quale sarà il prossimo da leggere. In quelle ore, gli ultimi echi della storia appena conclusa ancora ci risuonano nell’animo, se è piaciuta, ma contemporaneamente una parte del nostro spirito è già proiettata verso il nuovo libro.

Libro non del tutto sconosciuto, a pensarci bene. Alcuni cose di lui già le sappiamo: ne conosciamo magari l’autore, a volte la trama; ma anche solo il tenerlo in mano instaura tra lui e noi una relazione intima pur non avendo ancora letto neppure una pagina. Accarezzarne la carta, osservarne la copertina, sbirciarne il frontespizio, l’indice; osservarne il font scelto per la stampa, l’interlinea, gli a capo, i filetti, l’armonia degli spazi pieni e vuoti sulla pagina; e poi farsi un’idea, sfogliandolo velocemente, se troveremo molto dialogo incolonnato o fitte pagine di descrizione. Un libro che già attrae prima ancora di leggerlo.

Quantomeno in questa non lettura le nostre aspettative su di lui, il nuovo libro, sono tutte integre e vitali. E anche se resteranno in parte deluse man mano che la lettura avanzerà, per ora la novità ci rende euforici e curiosi, come bambini che aspettano con impazienza la favola prima di addormentarsi.

Questo momento di non lettura, per me, ha un gran valore. Dover pensare al prossimo libro mi dà un senso di libertà assoluta, difficile da spiegare. Eppure credo di non essere l’unico a provarla. Che cosa leggerò, quindi? La scelta per fortuna è ampia, quasi illimitata. Potrebbe trattarsi di un saggio o di un romanzo, in base all’umore del momento.

E poi lettura o rilettura? Altro dilemma amletico, ma non tragico. Cercando il nuovo libro tra i miei scaffali ne potrei intercettare uno già letto tanti anni fa, e catturato dalla voglia di rileggerlo – perché l’ho apprezzato o perché non l’ho apprezzato ma vorrei dargli una seconda possibilità essendo passato tanto tempo che mi vede ora più maturo e pronto per dialogare di nuovo con lui – potrebbe essere lui a spuntarla su quello mai letto in precedenza.

Per fortuna ho centinaia di libri tra cui scegliere, non ho bisogno di entrare in libreria per colmare questo curioso stato d’animo di non lettore. Sono tanti i libri acquistati ieri o dieci anni fa, ma che poi sono stati superati al fotofinish da altri che erano già in casa. E così, pazientemente, se ne stanno ad aspettare l’ispirazione giusta per essere aperti e magari divorati.

Tolstoj, Márquez, Calvino… Tutto Hemingway mi guarda. In un angolo c’è Stephen King quasi ingiallito. A fianco Carver, l’ultimo acquisto che profuma ancora di libreria. Ma la mia mano si sofferma ora su Gadda, Quer pasticciaccio che per ben tre volte ho iniziato e quasi immediatamente abbandonato. Chissà se questa sarà la volta buona? Eccolo tra le mie mani, mi ricordo di averlo ricevuto insieme ad altri come premio a un concorso letterario. Sto per aprirlo, rileggere ancora l’incipit con don Ciccio Ingravallo, l’investigatore protagonista. Invece poi il mio sguardo si posa su un modesto libriccino ingiallito, che viene da una libreria di un mio conoscente che alla morte mi ha donato i suoi volumi. È un libro del ’90, la carta ingiallita lo dimostra. In copertina troneggia una bella incisione di William Hogarth del 1724 raffigurante monarchia, episcopato e legge. Si tratta di Jonathan Swift, Libelli. Ne vengo attratto. Ma è quello che c’è scritto sotto a farmi decidere per lui: scelti, tradotti e annotati da Giuseppe Prezzolini. Due scrittori al prezzo di uno.

Buona non lettura a tutti.

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Diritti del lettore (ma non è Pennac)

1. Leggere quello che ti pare.

2. Leggere nel formato che ti pare.

3. Leggere libri definitivamente conclusi.

4. Leggere per apprendere, ma anche no.

5. Abbandonare il libro se è brutto.

6. Criticare il libro se è brutto.

7. Fregarsene dell’autore. Conta solo quello che c’è scritto sulla pagina.

8. Fregarsene di critici e recensori. Conta solo quello che tiri fuori tu dal libro o quello che tira fuori il libro da te.

9. Fare del libro che hai acquistato quello che ti pare: regalarlo, prestarlo, rivenderlo, bruciarlo.

10. Decidere anche di non leggere.

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La coscienza di Helgaldo

A me un po’ dispiace di essere uomo.

Come attacco non c’è male, però poi mi sono incartato, ho scritto e riscritto, e poi ho cancellato tutto, e volevo addirittura rinunciare a questo post, perché dire che noi uomini non sapremo mai amare una donna so già che verrà liquidato come la solita esagerazione di Helgaldo. Parla per te, direte voi maschi; ma anche voi donne che avete un partner affettuoso e sensibile, direte che esagero. Va bene, esagero. Forse. Però non è colpa mia, ma della Coscienza di Zeno, che sto leggendo con avidità in questo periodo.

‘Sto coso, anzi ‘sto Cosini, mi sta simpatico perché autobiografandosi nella sua lunga autoanalisi per lo psicologo, che poi coincide con il libro stesso, afferma una verità sacrosanta: gli uomini non potranno mai amare se non se stessi. Malati immaginari, bisognosi di coccole e rassicurazioni, pronti all’innamoramento, impreparati all’amore; spergiuri, calcolatori, menzogneri, traditori del matrimonio ma anche dell’adulterio. Sempre bravi a giustificarsi con se stessi, dai perenni buoni propositi mai mantenuti neppure per cinque minuti; prima ci piace la ragazza per la sua spontaneità, il giorno dopo ci crolla il desiderio perché troppo spontanea. Il matrimonio è bello, metto la testa a posto. Perché dovrei mettere la testa a posto solo perché mi sposo? Siamo una contraddizione in termini, mai d’accordo con noi stessi, mai siamo capaci di lucida e chiara sincerità. Giuda dei sentimenti, corriamo da una femmina perché la vogliamo in esclusiva. Appena ci sussurra quelle parole magiche tutte per noi – ti amo, voglio esser tua – eccoci a progettare la fuga da Alcatraz. Dio, Shakespeare, Dante, Moccia ma che ne sapete voi dell’amore? Dell’innamoramento sì, arrivate fino al lucchetto sul ponte, ma poi? Ognun per sé e la partita di calcetto con gli amici per tutti: io la maglia numero nove, Higuain forever!

Leggo Zeno Cosini e la sua coscienza, e intanto penso alla mia. Che vergogna! Siamo uguali, io e lui: lui finzione, io realtà. O è il tutto il contrario?

A me un po’ dispiace di essere uomo.

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Sintomatologia letteraria

Sintomi: pianto improvviso, violento, prolungato, incontenibile, con successiva emicrania e dolore agli occhi, causato dalle seguenti pagine:

Manzoni, Promessi sposi, Cecilia.
De Amicis, Cuore, Il tamburino sardo.
Oscar Wilde, Racconti, Il gigante egoista, L’usignolo e la rosa.
Dante, Divina commedia, Inferno, Canto XXXIII, conte Ugolino.

Sintomi: senso di abbandono, malinconia, lutto per perdita di un amico caro:

David Copperfield, ultime pagine.

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Matti in scatola

Io, da bambino, in una scatola, per gioco, mi ci sono chiuso.

Grilloz

 

Post scriptum: Invitiamo sempre i nostri pazienti a riandare con la mente all’infanzia, per ritrovare quella perduta felicità che la Recherche non può certo offrire. Perciò, quando stamattina un matto ha inaspettatamente sporcato il muro della Scuola Santa Rosa con quella frase sbucata dal nulla ho vietato agli inservienti di rimuoverla. Chissà se altri ospiti, leggendola, faranno riemergere dall’inconscio qualche episodio dei primi anni di vita che ridia loro serenità, anche se per qualche ora soltanto. Tentiamo, non nuoce.

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Billy Budd, la ballata finale

Siamo agli sgoccioli ormai, manca poco alla fine del romanzo. Uscito di scena Claggart già da qualche capitolo, e Billy Budd da pochissimo, in scena non resta che il capitano Vere. Ma il capitolo 28, brevissimo, lo coglie sul ponte della Bellipotent mentre la sua nave incrocia quella da guerra francese della Athée. Lo scontro a fuoco che ne deriva vede prevalere la marina britannica, ma il prezzo da pagare al romanzo è la morte del capitano stesso, dopo un’agonia febbricitante, invocando più volte il nome di Billy Budd.

E così i tre protagonisti, dal cui intreccio nasce questa vicenda drammatica, finiscono nell’oblio dei secoli. Un po’ come in Moby Dick, dove solo Ismaele sopravvive al mostro per raccontarne le gesta. Qui avviene qualcosa di simile. Svaniti Claggart, Billy e Vere, resta solo qualche resoconto indiretto e offuscato del loro passaggio nel mondo: una versione ufficiale dell’accaduto, dove si ipotizza un tentativo di ammutinamento sulla Bellipotent orchestrato da Billy, scongiurato da Claggart, che paga la sua fedeltà alla marina militare con una pugnalata mortale sferratagli da Billy stesso, e l’immediata condanna all’impiccagione decretata dal capitano. Ed è Billy il malvagio, il simbolo del male. Ma a questa versione ufficiale fa da contraltare tra i semplici marinai una ballata, prima ripetuta oralmente e poi giunta addirittura a pubblicazione, dove invece Billy ritrova il ruolo dell’innocente capro espiatorio delle nefandezze del mondo.

Possiamo consolarci con la constatazione che la pubblicazione ufficiale del complotto ordito dal marinaio William Budd fu presto dimenticata, mentre la ballata che narra la storia di Billy Budd marinaio, viene ancora cantata sui ponti delle navi dai marinai semplici quando smontano dalla corvée? Credo proprio di sì.

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Billy Budd, nella profondità

Come già per Claggart, affidato al mare dopo la morte, ora tocca a Billy Budd scivolare nell’acqua e inabissarsi. Che i gabbiani volteggino a lungo sulla spuma prodotta dalla discesa della sua bara scuote profondamente gli animi dei marinai, che vedono nelle loro grida e nel loro volteggiare basso un significato sulla morte di Billy più profondo, inafferrabile e complesso della semplice ricerca di cibo.
Così serve tutta la maestria dei gradi superiori nell’impartire ordini perentori e manovre immediate per sradicare dalle loro menti la figura di Billy Budd e farli tornare ai gesti consueti e meccanici della navigazione. Quasi che l’occupare i pensieri con manovre di bordo allontani il rischio di riflettere su quanto successo al povero marinaio e di esprimere giudizi personale su come si è giunti alla sua condanna sommaria e morte ingiusta.

Mi ricorda tanto i telegiornali quando alla notizia di una sciagura umana segue immediatamente la cronaca sportiva. L’euforia giocosa come sentimento finale dopo tanto dolore. Da attaccare all’anima come un post-it fino a domattina.

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Billy Budd, l’impiccagione

Siamo giunti quasi in fondo al nostro lungo viaggio in Billy Budd. Dopo l’omicidio, il processo sommario e la sentenza di morte, non resta ora che eseguire la condanna per impiccagione sul ponte della Bellipotent.
Le ultime parole di Billy Budd in punto di morte sono di ammirazione per il capitano Vere, l’uomo che ne ha decretato la condanna: «Dio benedica il capitano Vere!». E a rispondergli, come in un coro greco, è l’intero equipaggio, ripetendole con una sola voce. Poi il segnale muto di eseguire la sentenza. Un attimo dopo Billy Budd, l’avvenente marinaio, pende immobile dal pennone senza neppure un involontario spasmo del corpo, mentre un’alba rosa sorge sul mare.

Qui ha termine la vita di Billy Budd, marinaio. E lo stacco è brusco e crudele perché nel capitolo che segue, siamo al 26, pochi giorni dopo l’impiccagione il commissario di bordo e il medico discutono a mensa filosofeggiando su questi spasmi involontari che non si sono manifestati in modo evidente durante l’impiccagione. Parlano di Billy come se guardassero un oggetto da esaminare chirurgicamente e senza trasporto emotivo. Questo spostare l’attenzione per un uomo da un piano quasi allegorico e spirituale a un altro ferocemente materiale forse è la violenza peggiore che il narratore poteva compiere su Billy.

A onor del vero il chirurgo, quando la discussione diventa troppo astratta e disumana si inventa una scusa per interrompere il dialogo che ucciderebbe una seconda volta in pochi giorni non solo il corpo ma anche l’anima dello sfortunato protagonista. Mi ricorda certe interminabili discussioni di convenienza politica sul tema dell’immigrazione negli studi televisivi, con alle spalle la gigantografia del bambino morto annegato su una spiaggia del Mediterraneo. Dove in pochi attimi si passa dalla commozione umana al cinismo della ragion politica.

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