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Annotazioni in equilibrio precario

Tanti anni fa un mio amico, pessimo di penna ma ottimo con la matita nel ritrarre, mi raccontò di avere visto sull’autobus partito bruscamente alla fermata, un uomo grande e grosso e per giunta grasso al centro del pianale dell’automezzo che cercava di reggersi disperatamente a qualcosa per non cadere. Appena sfiorava una maniglia ecco che l’autobus sobbalzava facendolo barcollare all’indietro, allontanandolo dalla presa. E lui, tentando di controbilanciarsi provava a raggiungere il paletto più vicino, ma un altro scossone improvviso lo fletteva di lato e per restare in piedi doveva danzare con le gambe e con le braccia puntando allo schienale di un sedile che quasi raggiunto si allontanava beffardamente come l’onda di ritorno del mare, mentre il suo corpo cercava un nuovo e perpetuo punto di equilibrio per restare in piedi. Ondeggiando per tutto il tragitto fino alla fermata successiva.

L’immagine, o se preferite la scenetta, dell’uomo grasso perennemente in cerca di un punto di equilibrio, mi colpì molto allora, non l’ho più dimenticata. Mi sembra quasi una metafora della vita. Una metafora però semplice e casuale, trovata e non cercata, che si può raccontare come semplice fatto o come sintesi finale di fatti slegati tra di loro. Metafora che non necessita di spiegazioni. Del tutto naturale.

Però in questo racconto c’è anche l’osservazione, colui che coglie un fenomeno, che registra con una webcam mentale un’ombra, un passo, uno sguardo, una situazione. E anziché scordarseli poco dopo, li annota per il gusto di annotarli.

Gli scrittori, quelli veri che lo sono ventiquattrore al giorno, di situazioni simili ne scorgono  in continuazione. Alcune finiranno nei romanzi, la maggior parte invece resterà confinata in un umile taccuino che solo i critici, dopo le esequie, andranno a spulciare. Anche questa è letteratura, letteratura minore. A me sembra sia la parte migliore della commedia umana – anche della tragedia –, quella che veramente fa la differenza, la polpa più gustosa dell’essere scrittori.

Qualcuno mi dice che osservazioni di questo genere gliene capitano di continuo, ma poi se le dimentica e restano solo dei semi, delle sensazioni, nel suo cuore. Perché invece di lasciarli solo lì, che già va benissimo, non li affidiamo anche a una pagina che tutti possano arricchire e al contempo depredare?
Ho così pensato di crearla, decidete poi voi se e quando servirvene.

Una raccomandazione: questa non è prosa, ma solo annotazioni grezze anche se cariche di senso. Non è la bella scrittura o la spiegazione che conta in questo contesto, ma l’osservazione attenta di un fatto nudo e crudo. Dieci righe o tre parole, non importa.

Cercate di restare in equilibrio come quell’anonimo passeggero tra gli scossoni, mentre scrivete. E poi buttate le vostre osservazioni in quella pagina, come in una buca delle lettere: qualcuno verrà di sicuro a leggerle. Domani o fra cent’anni, a noi che ce ne importa?

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Il tram della notte

Milano è sempre vivace, anche di notte. L’ultima corsa notturna dei suoi tram, verso l’una di notte, porta verso le periferie gente che ha ancora voglia di birra e di divertimento; oppure di arrivare a casa in fretta e coricarsi dopo una giornata torrida e da dimenticare. Li vedo salire in massa alla prima fermata dopo il capolinea: io sono già accomodato per i fatti miei vicino al finestrino, con un libro spalancato in mano, immerso nelle pagine.

Questa vita notturna mi piace. Un po’ leggo, un po’ osservo intorno senza mai incrociare sguardi. Ci si imbatte in personaggi strani, a volte. Mi chiedo se sono quelli giusti per il romanzo che non scriverò mai. Chi sono, cosa fanno, perché si spostano di notte, da dove vengono. Cerco di immaginare le loro case, i quadri che hanno alle pareti. Alcuni non possiedono quadri, ma direttamente l’urlo originale di Munch. Mi chiedo se dormono su un divano sfondato – giurerei di sì per molti di loro –; e ancora, se hanno qualcuno che li aspetta a casa: qualcuno sarà stato appena lasciato e sale sul tram con mezza birra ciondolante in mano, più altre cinque in corpo e nell’anima. Questi i pensieri che si inframmezzano tra un paragrafo e l’altro di Gadda, rallentandone la lettura.

Non me ne sono accorto, ma una coppia si è ricavata un angolo di tram poco distante da me. Non proprio un angolo per la verità: una nicchia. Lei ha trovato posto a sedere e lui è in piedi, vicinissimo, che le parla quasi appiccicato. Lui gesticola, è di spalle, non so che faccia abbia. Ma da dietro sembra un armadio a sei ante. Lei invece, quando lui traballa leggermente per gli strappi improvvisi del tram, mi appare di tre quarti. Sarà a due metri, un metro e mezzo da me, sulla diagonale. Se inclina leggermente la testa in avanti tocca la pancia di lui, tanto lui le sta a contatto. Per guardarlo in faccia, deve reclinare il capo all’indietro, mi sembra un po’ soffocata dalla postura del suo uomo.

Che è il suo uomo si capisce da come ridono e gesticolano. Con la mano destra che non si tiene al tram, lui tenta di colpirla con degli schiaffetti sulle guance. Lei si ritrae, si difende, ride. Torno al mio Gadda: «”Mària Vergine!”, come ammettendo di poter essere sospettata del contrario. No, la servente no la gera de Marino, no la gera dei Castelli Romani…». E sento un ciaff!

Allora alzo gli occhi dal Pasticciaccio, e vedo che seguitano i colpi e le parate. Mi rituffo nella pagina e un altro ciaff!, più sonoro questo. Guardandola ora lei non ha più lo stesso sorriso, ma è quasi sorpresa. Alza gli occhi all’uomo e non tenta più di difendersi. Lui prima fa una finta, e poi prova una carezza che non è gradita, perché lei ritira il viso, allora la carezza si trasforma in uno schiaffo, leggero ma voluto. Lei alza lo sguardo, muove le labbra, ora smettila sembra dire, e stringe a sé la borsa. Non giocano più. Ma lui la opprime con la sua muscolatura e c’è sempre quella mano libera che vuole giocare a schiaffi, anche se ora gioca ormai da sola. Forse qualcuno guarda, gli altri proprio non li vedono. E io riabbasso gli occhi al libro, ma di leggere non ho più voglia.

Ogni tanto torno su di loro, lui parla dall’alto, si esprime soprattutto con lo sguardo che io non vedo, lei non vorrebbe più trovarsi lì, imprigionata sul sedile. Non può né alzarsi, né alzare il viso, perché quando lo fa lui agita la mano e questo è sufficiente per far sì che lei debba proteggersi, ma ridacchiando, ma non con un bel sorriso sincero. Non sono fatti miei, in fondo non sta succedendo niente, una coppia che scherza per i fatti suoi e se guardassi l’uomo con espressione interrogativa quell’armadio so cosa mi direbbe in faccia: fatti i cazzi tuoi. Desidero che scendano, come vorrei scendessero.

Forse mi hanno ascoltato perché lui le si allontana leggermente e lei può finalmente alzarsi, e io mi rituffo dentro il libro abbassando il capo, perciò lui non lo vedo mentre mi sfila via. Vedo solo la sua mano destra e forte che tiene stretta la sinistra di lei, che lo segue docile con un sorriso disegnato sulle labbra, ma pietrificato, smorto, e due occhi neri impauriti e imploranti una grazia per una punizione che sente arriverà. Per quale colpa poi?

Non vi dirò se erano italiani o stranieri, vi dico solo che erano un uomo e una donna. Tanto basta. Ora ci vorrebbe uno scrittore, o una scrittrice, che si prendesse l’onore e l’onere di raccontare questi fatti in un romanzo. E se pensate che di romanzi che già parlano di queste cose ce ne sono troppi in giro, per cui è inutile aggiungerne un altro, vi dirò che proprio per questo è utile aggiungerlo.

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Quadro giapponese metropolitano

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Salgo sul metrò e mi siedo. Spalanco un libro e inizio a leggere, ma al primo sobbalzo del convoglio alzo gli occhi dal testo e vedo tre giapponesi seduti di fronte a me. Avranno sì e no vent’anni.
La ragazza, identica a quelle dei cliché con i codini, è facile da immaginare. Impugna uno smartphone, tiene la testa reclinata sulla spalla del ragazzo alla sua destra, ed è intenta ma annoiata a un videogioco di cui giungono fino a me i suoni che produce. Al lato opposto un ragazzo addormentato, anch’egli con la testa appoggiata alla spalla dell’amico e un vistoso paio di cuffie rosse sulle orecchie. Mi chiedo se stiano trasmettendo musica, ma forse no, perché ha gli occhi completamente chiusi e se ne sta perfettamente fermo.
In mezzo a reggere le due teste sulle spalle un altro ragazzo, il più maturo del gruppo. Guarda nel vuoto, ha in braccio un cucciolo di beagle sdraiato sulle sue ginocchia, che dormicchia con le zampe anteriori che pendono nel vuoto. Il ragazzo l’accarezza dolcemente e i quattro sembrano i soggetti di un quadro a cui manca solo la cornice.

Mentre penso alla campagna giapponese, con i mandorli in fiore, e l’acqua dei ruscelli che scorre limpida, e sullo sfondo un ponticello, vengo avvolto dalla tranquillità di questi quattro immobili su un metrò che corre lungo una galleria della mia città.
Quando arriva la fermata, le porte del metrò si aprono, e salgono due operai, di quelli con la maglia rossa e la tuta blu, tipo Super Mario. Trasportano una cornice in legno alta quasi come loro e la piazzano proprio davanti ai tre ragazzi più cane seduti di fronte a me, affinché li possa meglio ammirare come opera su tela, tale è la loro immobilità plastica e la sensazione di perfetta tranquillità che irradiano. Mi stanno davanti perfettamente incorniciati, e la geometria delle loro pose mi affascina al punto che smetto di muovere su e giù nervosamente la mia gamba destra.

Dev’essere una gran cosa il Giappone, penso. Mi chiedo perché i cani non abbiano anch’essi gli occhi a mandorla. La cornice resta fissa e penso che i passeggeri che vi passano davanti non possano esimersi dall’ammirare questo paesaggio giapponese metropolitano. San Silvestro è sparito, pare primavera, e vorrei che il tempo si fermasse per sempre su quest’opera vivente. Non c’è motivo perché lo scorrere dei secondi spezzi questo oceano di perfezione.

Poi un movimento impercettibile e sincrono. Le teste abbandonano le spalle, il cane alza il muso. Si alzano tutti nello stesso istante, spezzando la composizione. Le porte si aprono e loro se ne vanno silenziosi in fila indiana. È un brusco risveglio del 31 dicembre, della realtà che mi circonda. Il clangore assordante del metrò è riemerso, la folla ha le facce stanche di sempre e c’è chi non ha mai smesso di digitare sul telefonino.
Anche la mia gamba è ritornata a muoversi nervosa.

Felice conclusione e buon inizio a tutti.

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Poesia automatica d’amore

foto_yoga

Non ce ne rendiamo nemmeno conto ma viviamo immersi nelle parole. E non mi riferisco solo a ciò che leggiamo e scriviamo quotidianamente su libri e blog. Le parole abitano i luoghi che abitiamo, bivaccano sui cartelloni pubblicitari per la via, si muovono sugli schermi televisivi, si aggrappano alle etichette dei prodotti, vivono sui volantini che ci danno in mano mentre camminiamo per strada.

Tutto questo fermento di parole mi dà continui stimoli creativi che immancabilmente si riflettono sulla scrittura.
In questi giorni di atmosfera natalizia le parole in giro per la città sono intrise di buoni sentimenti, anche se non ce ne siamo accorti.

Me ne sono reso conto viaggiando in metropolitana e cogliendo mozziconi di parole in bella vista alle varie fermate della linea 3 che mi portava sul luogo di lavoro. Ne è nata la solita poesia automatica, ma questa volta rispetto al passato, improntata sul tema dell’amore.

Che l’amore nasca da casualità statistica, meccanica, disumana, inconsapevole, non l’avrei mai sospettato. Potevo far finta che non fosse successo? Soprattutto, potevo non condividerlo con voi?

SENZA TITOLO

Il frigo
piange
lettere
d’amore.

Sos.
Good news!
(Sono
aperte
le
iscrizioni
per
chi
ama)

Questo
si
chiama
volare
dalla
raucedine
al
karaoke.

Cenerentola,
che
l’ultravelocità
sia
con
te.

 

Post Scritpum. Se qualcuno ha un’idea per il titolo faccia un passo avanti.

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Poesia metropolitana 3

foto_croce

Oggi giochiamo.
Ti dirò subito – anche se già lo sai – che a Milano ci sono quattro linee di metropolitana, e tutte hanno un colore: giallo, rosso, verde, lilla. I daltonici potrebbero non essere d’accordo, ma per la stragrande maggioranza dei milanesi questi sono i colori e questi restano. Tra l’altro, chi segue il mio blog sale spesso con me in metropolitana, e si muove ormai con disinvoltura nella sotterranea di Milano. Comunque oggi prenderemo la linea gialla: non ti preoccupare, pago io il biglietto. Partiamo da Rogoredo andando verso il centro.
E ora la poesia.
Come la poesia? Che cosa c’entra adesso la poesia con la metropolitana?
C’entra: oggi scriviamo una poesia metropolitana.
Ci sediamo belli comodi a Rogoredo (a Rogoredo trovi sempre un posto libero sul metrò), prendiamo carta e penna e scriviamo le parole che ci colpiscono del cartellone pubblicitario che ci capita davanti a ogni fermata che facciamo, fino ad arrivare in centro. Ovviamente le frasi e gli slogan cambieranno in base al posto che occupiamo sul metrò. Se siamo nella carrozza in fondo o in testa vedremo pubblicità diverse. Semplice, no?

In base al posto dove siedo oggi ho trascritto queste parole:

ROGEREDO: Jesus Christ Superstar
PORTO DI MARE: L’avventura musicale di Topolino
CORVETTO: Jesus Christ Superstar
BRENTA: 40 giorni al 40%
LODI: –
PORTA ROMANA: Jesus Christ Superstar
CROCETTA: Guarda tutti i trailer su wwwsceglilfilm.it
MISSORI: Tutta la precisione di un orologio svizzero
DUOMO: Non ci perdiamo mai di vista

Salta subito all’occhio che se vuoi vedere un musical a Milano, in questi giorni c’è Jesus Christ Superstar in cartellone… ma non è questo il gioco.
Il gioco è la poesia, per ora senza titolo anche se una mezza idea io ce l’avrei, i cui versi recitano:

Jesus Christ Superstar,
l’avventura musicale di Topolino.
Jesus Christ Superstar,
40 giorni al 40%.

Jesus Christ Superstar
guarda tutti i trailer su wwwsceglilfilm.it.
Tutta la precisione di un orologio svizzero.
Non ci perdiamo mai di vista.

Che dirà la critica? Dirà che è un bel patchwork, con una vena pop: un mix di coro gospel e tentazioni scontate nel deserto, un po’ di Assoluto in stile disneyano caricato su Youtube, un rapporto sessuale a ore, ma con il finale sorprendentemente aperto all’amore e alla speranza.
Non è Leopardi, lo so. Ma lui mirava interminati spazi di là da quella. Io, al contrario, posso mirare solo i muri della Metropolitana 3. Domani faccio un giro sulla verde, vieni anche tu?

Post scriptum: se nel frattempo viaggi, prendi la penna in mano, questo è il meccanismo, il resto lo fai tu. Se poi vuoi mandarmi la poesia che nascerà sotto i tuoi occhi, la commenteremo insieme. Parlando invece seriamente, qualcuno la chiama poesia combinatoria, altri automatica. Per me è solo un gioco di parole.
Ma che possiamo fare noi che amiamo scrivere, se non giocare con tutto quello che ci capita?

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Chagall e il correttor cortese

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Questo post mi ossessiona da mesi, da metà agosto almeno, e ogni giorno mi vado domandando se scriverlo o lasciar perdere. Il motivo di tanta incertezza è dovuto al fatto che è un post tutto milanese e non so se può interessare ad altri, chi di voi vorrà abbandonare questo post adesso è perciò giustificato.
Se decidete invece di continuare a leggere vi dirò che alla fermata della metropolitana di Cadorna, Linea rossa, direzione Duomo, da metà agosto hanno affisso una pubblicità su fondo grigio che reclamizza una collezione di gioielli. Sul cartellone spiccano quattro anelli incastonati e il testo che li accompagna recita la frase «un gioiello di diamanti al di là dei tuoi sogni», scritta tutta in maiuscolo per dare forza al messaggio, il sogno di lei ovviamente, mentre per il mio portafoglio sarebbe un incubo regalarle quei preziosi ben al di là delle mie reali possibilità di spesa. Ma non è questo che mi perseguita da mesi.
Mi perseguita la correzion cortese che un ignoto editor ha aggiunto al cartellone, perché quell’«al di là» originariamente è stato scritto con l’apostrofo invece che con l’accento. Di fatto, un errore di grammatica. Allora lui, il correttor cortese, con una penna blu ha cerchiato l’apostrofo a fianco dell’avverbio e vi ha poi disegnato sopra l’accento grave, con grande garbo e direi moralità. Perché di correzione morale si tratta, e qui sta il mio stupore. La correzione è davvero cortese, quasi sussurrata, senza aggredire il cartellone. Un mormorio sommesso al copy, un suggerimento modesto e inattaccabile, senza toni polemici, in nome di una grammatica gentile in nome della Crusca.
Se andrete a vedere la mostra di Chagall a Palazzo Reale, non passerete troppo lontano dal correttor cortese, anzi probabilmente sarete sulla sua strada. Cadorna, direzione Duomo, pubblicità I Gregori. È esposta da metà agosto non so fin quando, ma poiché ci passo tutti i giorni vi terrò informati sulle evoluzioni.
Metteteci una firma sotto se volete, ma senza esagerare. Sarà un modo gentile per ringraziare il correttor cortese che si aggira penna in pugno a ristabilire i giusti accenti per Milano.

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Dieci righe fa 28

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Salgo in metropolitana, Linea 3-Duomo, sette di sera. Due fermate dopo, direzione periferia sud di Milano, vedo un ragazzo che legge un libro al centro del vagone. Che cosa avrà di particolare questo viaggiatore rispetto agli altri persi nei loro e-book o nei messaggini da ricevere e spedire? Sarà che vado sempre alla ricerca di qualcuno che possa ispirarmi un personaggio per il mio prossimo racconto, e potrebbe andarmi bene anche questo tizio con il libro in mano, e allora cerco di studiarne i tratti più significativi. Capelli lunghi raccolti in una coda; aspetto da centro sociale; portatore sano di valori ecologisti; zainetto in spalla e jeans strappati. Legge un libro dalla copertina rigida, cartonata, scosso dal metrò lanciato in corsa.
Potrebbe essere uno di quei ragazzi che ho visto alla tv spalare in questi giorni a Genova: facce pulite e sporche di fango, sorrisi e rabbia di un’Italia generosa e disperata. Ne farei un personaggio positivo, simpatico, forse tormentato. E poi c’è quel libro dall’aria così saggia, non so nemmeno di che parli, ma che è già un punto a suo favore. E mentre vi racconto tutto questo abbiamo fatto qualche fermata insieme, lui perso nella sua lettura, io nei miei ragionamenti.
Scendiamo a Rogoredo, stazione di interscambio ferroviario. Prendiamo le scale tra una folla di altri cento che salgono i gradini due alla volta per non perdere il treno in partenza sul binario. Gli altri novantanove scappano, lui no.
Occhi sul libro, si fa travolgere dall’onda pendolare. Sale restando immobile, come se ci fosse solo lui su quei gradini. Perso nella lettura, non guarda dove mette i piedi. Scorgo per un attimo la pagina, l’ultima del capitolo, solo per metà stampata. Non si può smettere di leggerla, il mondo non esiste finché ci sono quelle dieci righe da finire, priorità assoluta che va consumata all’istante, fino in fondo. Al diavolo i gradini, i pendolari, i treni in arrivo e in partenza dagli altoparlanti.
Quante volte anch’io leggo camminando, salendo le scale completamente in trance. Che diamine, non si può interrompere la lettura a poche righe dalla fine. Ne ho persi tanti di metrò, di autobus, di piatti caldi, di sguardi femminili accattivanti per dieci righe da finire.
Solo dopo aver chiuso il suo capitolo si è domandato dove mai fosse ed è scappato via. Allora sono tornato sui miei passi per contare quei gradini. Qui, a Milano Rogoredo, sono 28: pari a dieci righe di romanzo.
Contate anche voi dieci righe di romanzo quanti gradini fanno.

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Chiudo la parentesi

foto_piedi_catene

Che fosse sciroccata l’ho capito appena l’ho vista al capolinea della metropolitana. Siede per terra, fa domande e si risponde da sola, imbastendo un dialogo farfugliato con l’altra metà di sé che le abita la mente.
Quando arriva il metrò mi accomodo e apro il libro che mi sono portato dietro, ma so già che la lettura oggi è fortemente a rischio. Lei cammina avanti e indietro nella carrozza, poi è attratta da un rettangolo di pubblicità. Non so cosa l’abbia colpita, la seguo di nascosto fingendo di essere immerso nel mio libro, mai volgere lo sguardo verso gli sciroccati, potrebbero intercettarti e non sai mai come va a finire.
Non è servita a niente la mia tattica, è già da me. «Scusa, hai una penna, solo per un attimo?». Tieni la penna. Mi sorride, ma è il sorriso di chi soffre. «Sapevo che avevi una penna. Chi legge libri non può non avere una penna». È soddisfatta della sua osservazione, e con la mia penna in mano si allontana. Mi rituffo nella pagina stampata anche se non leggerò una riga. È vero, penso, libri e penne vanno sempre in coppia. Ma rieccola alla carica. «So che ti sto disturbando, ma non avresti anche un pezzo di carta?». Le dico no, mentendo. Un pezzo di carta ce l’avrei da qualche parte, chi ha un libro e una penna da qualche parte figuriamoci se non ha un pezzo di carta, ma la fatica di cercarlo in questo momento vince sulla solidarietà.
Si allontana, scusandosi comunque, e la seguo mentre chiede un po’ di carta agli altri passeggeri, finché l’ottiene. Fermata dopo fermata, sballottata dal metrò, ricopia con attenzione il testo della pubblicità che le interessa. Che ci sarà scritto di tanto importante? Della penna non me ne frega, gliela lascio volentieri. Ma infine me la riporta. Si lascia cadere due posti più in là per rileggere avidamente quello che ha copiato, quasi fosse una rivelazione che assorbe tutte le energie. Ma qualcosa non le torna. «Mi ridai la penna un attimo? Ho aperto una parentesi, ma non l’ho chiusa. Se non chiudo la parentesi non si capisce nulla. Le parentesi vanno sempre chiuse».
Cerco di immaginarmela senza quella smania, senza quell’angoscia che è così evidente sul suo viso. Gli occhi spalancati, le pupille dilatate, la salivazione al minimo di chi sta davvero male. Credo anch’io che le parentesi vadano sempre chiuse. Parlerei con te per ore delle parentesi, e anche delle virgole e dei punti e virgola, so che sarebbe interessante per entrambi.
Ora che ha chiuso la parentesi pare più tranquilla, si fa per dire, dura solo un attimo, perché si alza di scatto, si allontana, poi ritorna da me. «Ci tengo all’italiano, ero brava in italiano. Era l’unica cosa dove andavo bene. In matematica no, ero una frana. Mi sarebbe più servito essere brava in matematica per vivere. L’italiano non mi serve a niente. Per vivere, meglio la matematica».
Quante volte mi sono trovato anch’io a pensarla come lei. Concordo con le tue parole, mi rivedo nel tuo sguardo assorto nei ricordi dell’italiano e della matematica ai tempi della scuola. Un attimo di quiete, poi riprende a fremere di nuovo. Si allontana dimenticandosi di tutti, sprofondata nella lettura attenta del foglietto.
Devo scendere, sono arrivato. Invento una scusa con me stesso per dirigermi verso la porta sotto la pubblicità. La sbircio in fretta mentre esco dal metrò: Voce Amica. Trent’anni di solidarietà telefonica.
Cara la mia Chiudolaparentesi, spero tanto che tu l’abbia poi fatta la telefonata. Per questo post sarebbe il finale più bello che io possa immaginare.

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Libri di scorta

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Il tram numero 15, un bruco verde che parte dalla periferia desolata di Milano per condurmi nel centro ugualmente desolato dove lavoro ogni giorno, è il luogo ideale per incontri letterari al buio come quello che mi è capitato oggi.

Sto leggiucchiando il mio ultimo acquisto sballottato dal tram ed ecco che con la coda dell’occhio scorgo un giovane lettore seduto a pochi passi da me. Lunghi capelli ricci, scarpe, pantaloni e maglietta grigi, una borsa a tracolla e un libro in mano. Non riesco a leggerne il titolo, purtroppo;  ma dal lembo di copertina che intravedo tra le sue mani direi che si tratta di un romanzo di Guanda. Avete presente quei colori pallidi e un po’ tristi tipici delle copertine di Guanda? Sì, no? Be’, non importa, non è qui il punto. Il punto è che il ragazzo l’ho beccato proprio in fondo al libro. Sprofondato nella lettura si sta divorando le ultime pagine del romanzo tutte d’uno fiato, inconsapevole che lo osservo in modo maniacale da qualche minuto per carpire il segreto del suo titolo.

Le ultime pagine, si sa, sono le più drammatiche, anche perché quando sei alla fine poi non c’è più nulla da leggere. E infatti lui arriva all’ultima riga, richiude il libro e resta con lo sguardo perso nel vuoto. Cerco di immaginarne i pensieri, anzi mi verrebbe voglia di chiedergli com’è il libro, se il finale l’ha soddisfatto, se me lo consiglierebbe. Ma a Milano non si può fare, c’è già abbastanza follia in giro e non voglio essere proprio io a giustificare quelli che dicono che la città non è più sicura come una volta, perché ti avvicinano per chiederti di tutto, dall’euro per bucarsi al giudizio sui libri che hai appena finito. Allora distolgo lo sguardo.

Ma appena torno a guardarlo, la sorpresa: tra le sue mani è comparso un nuovo libro. Questo sì che lo vedo: La mostra delle atrocità, di J.G. Ballard. Che stupido, come mai mi era sfuggito un pensiero tanto elementare, eppure so bene che non può che essere così: anch’io calcolo quanto mi manca alla fine del libro che sto leggendo, e viaggio tranquillo proprio perché in borsa ho già quello di scorta. Le nostre strade ora si dividono: io qui a scrivere del suo libro di scorta; lui, ma è un calcolo fatto a spanne,  si è già lasciato alle spalle l’introduzione e attualmente si muove tra la fine del primo e l’inizio del secondo capitolo. Buon viaggio, lettore.

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