Bisognerebbe scrivere un romanzo ambientato ai nostri giorni, anzi precisamente oggi, che racconti di un personaggio con un ruolo lavorativo e sociale insignificante e trasparente, fenomeno diffusissimo in Italia, non dovrebbe essere difficile immedesimarsi nel suo compito di guardiano di una fabbrica dismessa e da smantellare, capannoni industriali una volta pulsanti di macchinari e operai, ridotti ora a esoscheletri silenziosi e immensi, testimonianza di un’industrializzazione fallita. Cattedrale nel deserto attraversato da strade provinciali dritte recluse tra filari di pioppi a perdita d’occhio su una pianura immensa e grigia a trecentosessanta gradi, arterie che portano nel nulla. Vie poco trafficate, dove le buche non vengono più riparate da tempo dagli amministratori locali, comuni che si ritrovano a fare i conti con una deindustrializzazione selvaggia e inattesa. In questo universo silenzioso e immutabile, sentinella solitaria e inutile, perché non c’è materiale da rubare oltre il cancello della ex ditta di materie plastiche, eccetto l’eternit che non verrà mai rimosso dai tetti, il nostro «eroe» passa le giornate metodicamente imbrigliato nella sua solitudine, riceve ancora uno stipendio che può giocarsi in poche ore del sabato alle slot machine dei bar frequentati da pensionati e vedove nel paese più vicino, cinque chilometri di curve e zanzare, dove italiani e cinesi se ne stanno andando per far posto ai nuovi italiani, extracomunitari e profughi, sistemati alla bell’e meglio negli alberghi della zona grazie al contributo statale.
In questo paesaggio naturale dove all’orizzonte terra e cielo si fondono nel grigio, tra copertoni bruciati, prostitute e trans per i pochi clienti che ancora giungono su Suv chiassosi dalle città limitrofe dove ancora qualche attività terziaria sopravvive – Rovazzi si spande a palla tra i campi di granturco –, tra semiassi di trattori abbandonati, il nostro custode intrattiene qualche timido approccio con l’edicolante del paese, una sensuale giunonica sfuggita a un film di Fellini, e con il matto del paese, detto Il Santo, che nell’acme delle sue ricorrenti crisi minaccia l’ira di Dio su uomini e bestie, predicando dal teatro a semicerchio nella piazza principale, costruito negli anni di prosperità per celebrare un festival letteratura che non è mai giunto alla seconda edizione.
Nel frattempo la natura si è ripresa gli spazi progettati dall’uomo: le radici, le erbacce, i facoceri notte dopo notte riconquistano i territori intorno alla fabbrica che già in passato li avevano visti comandare sull’area. Il nostro vigilante avverte ogni notte i grugniti dei cinghiali, sempre più minacciosi e superbi, e i fruscii delle fronde, che sembrano canti minacciosi di sirene intraprendenti.
La calma piatta di questo territorio viene turbata un giorno dall’arrivo di militari, carabinieri e troupe televisive sulle tracce di un omicida fuggito di galera e che ha già colpito a un bivacco di prostitute, colpevoli di essersi trovate sulla sua via di fuga. Improvvisamente il custode viene intervistato dalle tv, anche se non ha nulla da dichiarare, ma il suo racconto delle sensazioni notturne nella fabbrica abbandonata ispira quel clima horror di cui si nutre la cronaca nera, mentre il ricercato nel frattempo ha colpito ancora mettendo a segno una rapina in una delle ultime ville del paese.
La popolazione locale si sente minacciata, la ditta vuole rimuovere il custode dalla fabbrica isolata tra i campi per evitare guai peggiori. Questo è vissuto dal protagonista come l’anticamera del licenziamento e si oppone. Un giornalista segue il suo caso ed evita la rimozione, ma l’uomo viene armato per salvaguardare la sua sicurezza. Portando una pistola alla cintola ora si sente importante, il paladino del paese; fa colpo sulla giunonica, si infrattano di notte in uno dei tanti capannoni della ditta. E in quel momento si ritrovano davanti il pregiudicato: l’uomo non ha intenzioni minacciose, non è armato, sembra solo divertito dall’amplesso.
Il custode uccide l’uomo e poi anche la donna. Li seppellisce all’interno della fabbrica. Il giorno dopo l’edicola resta chiusa, le ricerche della donna risultano vane, la colpa viene fatta ricadere sull’evaso, che sembra svanito nel nulla. L’uomo rimedia ancora qualche intervista, ipotizza che i due potessero essere divenuti amanti, in fondo era una donna esuberante e tutto è possibile con personaggi così particolari e fantasiosi. Man mano che i fatti di cronaca si allontanano, i giornalisti scemano, le ricerche della donna e del delinquente si diradano, le erbacce salgono lungo il filo spinato della fabbrica, i facoceri e i loro cuccioli minacciano le colture con sempre maggior frequenza. Alle elezioni si presenta un movimento nuovo che vuole rimettere in moto il territorio, da tempo abbandonato a sé stesso. Anche gli immigrati se ne sono andati da questa fetta d’Italia senza speranza.
Il custode, tornato anni dopo davanti alla fabbrica di cui era l’unica presenza, non prova alcuna emozione o pentimento per il duplice omicidio che ha commesso. Il Santo, ormai vecchio, tiene il suo consueto sermone. Qualche ora dopo, in piena notte, a qualche chilometro di profondità nel sottosuolo, la terra silenziosa si sveglia energicamente per andare a scoprire cosa è successo nel frattempo in superficie a millenni di distanza. Troverà che piante e facoceri dominano ancora incontrastati, secondo le leggi immodificabili della natura.
Eh sì, ci vorrebbe qualcuno che avesse voglia di scriverla una storia, non dico questa, più o meno come questa.