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Come si costruisce una trama, come si sviluppa un personaggio

Le leggi immodificabili della natura

Bisognerebbe scrivere un romanzo ambientato ai nostri giorni, anzi precisamente oggi, che racconti di un personaggio con un ruolo lavorativo e sociale insignificante e trasparente, fenomeno diffusissimo in Italia, non dovrebbe essere difficile immedesimarsi nel suo compito di guardiano di una fabbrica dismessa e da smantellare, capannoni industriali una volta pulsanti di macchinari e operai, ridotti ora a esoscheletri silenziosi e immensi, testimonianza di un’industrializzazione fallita. Cattedrale nel deserto attraversato da strade provinciali dritte recluse tra filari di pioppi a perdita d’occhio su una pianura immensa e grigia a trecentosessanta gradi, arterie che portano nel nulla. Vie poco trafficate, dove le buche non vengono più riparate da tempo dagli amministratori locali, comuni che si ritrovano a fare i conti con una deindustrializzazione selvaggia e inattesa. In questo universo silenzioso e immutabile, sentinella solitaria e inutile, perché non c’è materiale da rubare oltre il cancello della ex ditta di materie plastiche, eccetto l’eternit che non verrà mai rimosso dai tetti, il nostro «eroe» passa le giornate metodicamente imbrigliato nella sua solitudine, riceve ancora uno stipendio che può giocarsi in poche ore del sabato alle slot machine dei bar frequentati da pensionati e vedove nel paese più vicino, cinque chilometri di curve e zanzare, dove italiani e cinesi se ne stanno andando per far posto ai nuovi italiani, extracomunitari e profughi, sistemati alla bell’e meglio negli alberghi della zona grazie al contributo statale.

In questo paesaggio naturale dove all’orizzonte terra e cielo si fondono nel grigio, tra copertoni bruciati, prostitute e trans per i pochi clienti che ancora giungono su Suv chiassosi dalle città limitrofe dove ancora qualche attività terziaria sopravvive – Rovazzi si spande a palla tra i campi di granturco –, tra semiassi di trattori abbandonati, il nostro custode intrattiene qualche timido approccio con l’edicolante del paese, una sensuale giunonica sfuggita a un film di Fellini, e con il matto del paese, detto Il Santo, che nell’acme delle sue ricorrenti crisi minaccia l’ira di Dio su uomini e bestie, predicando dal teatro a semicerchio nella piazza principale, costruito negli anni di prosperità per celebrare un festival letteratura che non è mai giunto alla seconda edizione.

Nel frattempo la natura si è ripresa gli spazi progettati dall’uomo: le radici, le erbacce, i facoceri notte dopo notte riconquistano i territori intorno alla fabbrica che già in passato li avevano visti comandare sull’area. Il nostro vigilante avverte ogni notte i grugniti dei cinghiali, sempre più minacciosi e superbi, e i fruscii delle fronde, che sembrano canti minacciosi di sirene intraprendenti.

La calma piatta di questo territorio viene turbata un giorno dall’arrivo di militari, carabinieri e troupe televisive sulle tracce di un omicida fuggito di galera e che ha già colpito a un bivacco di prostitute, colpevoli di essersi trovate sulla sua via di fuga. Improvvisamente il custode viene intervistato dalle tv, anche se non ha nulla da dichiarare, ma il suo racconto delle sensazioni notturne nella fabbrica abbandonata ispira quel clima horror di cui si nutre la cronaca nera, mentre il ricercato nel frattempo ha colpito ancora mettendo a segno una rapina in una delle ultime ville del paese.

La popolazione locale si sente minacciata, la ditta vuole rimuovere il custode dalla fabbrica isolata tra i campi per evitare guai peggiori. Questo è vissuto dal protagonista come l’anticamera del licenziamento e si oppone. Un giornalista segue il suo caso ed evita la rimozione, ma l’uomo viene armato per salvaguardare la sua sicurezza. Portando una pistola alla cintola ora si sente importante, il paladino del paese; fa colpo sulla giunonica, si infrattano di notte in uno dei tanti capannoni della ditta. E in quel momento si ritrovano davanti il pregiudicato: l’uomo non ha intenzioni minacciose, non è armato, sembra solo divertito dall’amplesso.

Il custode uccide l’uomo e poi anche la donna. Li seppellisce all’interno della fabbrica. Il giorno dopo l’edicola resta chiusa, le ricerche della donna risultano vane, la colpa viene fatta ricadere sull’evaso, che sembra svanito nel nulla. L’uomo rimedia ancora qualche intervista, ipotizza che i due potessero essere divenuti amanti, in fondo era una donna esuberante e tutto è possibile con personaggi così particolari e fantasiosi. Man mano che i fatti di cronaca si allontanano, i giornalisti scemano, le ricerche della donna e del delinquente si diradano, le erbacce salgono lungo il filo spinato della fabbrica, i facoceri e i loro cuccioli minacciano le colture con sempre maggior frequenza. Alle elezioni si presenta un movimento nuovo che vuole rimettere in moto il territorio, da tempo abbandonato a sé stesso. Anche gli immigrati se ne sono andati da questa fetta d’Italia senza speranza.

Il custode, tornato anni dopo davanti alla fabbrica di cui era l’unica presenza, non prova alcuna emozione o pentimento per il duplice omicidio che ha commesso. Il Santo, ormai vecchio, tiene il suo consueto sermone. Qualche ora dopo, in piena notte, a qualche chilometro di profondità nel sottosuolo, la terra silenziosa si sveglia energicamente per andare a scoprire cosa è successo nel frattempo in superficie a millenni di distanza. Troverà che piante e facoceri dominano ancora incontrastati, secondo le leggi immodificabili della natura.

 

Eh sì, ci vorrebbe qualcuno che avesse voglia di scriverla una storia, non dico questa, più o meno come questa.

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Mio cugino

Mio cugino è eclettico.

Mio cugino ha cinquant’anni, si taglia i capelli da solo come viene viene, e porta gli zoccoli. Mio cugino vive con i genitori, ha una laurea scientifica ed è diplomato in chitarra classica al conservatorio. Mio cugino tiene concerti gratuiti negli androni dei palazzi e fa risuonare la musica barocca nella tromba delle scale delle case popolari. Mio cugino è impiegato comunale, una volta ha vinto un concorso che poi è stato annullato perché bisognava assumere un candidato con la raccomandazione.
Mio cugino non ha mai avuto una ragazza.

Mio cugino dice che il tagliaerba più ecologico è un gregge di pecore nel prato. Mio cugino è pubblicista. Mio cugino gestisce senza guadagnarci nulla sei siti che trattano di iniziative ecologiche perché ci crede fermamente. Mio cugino è soprannominato dottor Divago perché quando parla apre tante finestre di Windows, ognuna con un argomento, ma poi non ne chiude neanche una, e finisce che si impalla. Mio cugino ha sempre ragione lui.

Mio cugino spiega ai bambini delle elementari come piantare un seme per avere l’ombra dagli alberi tra vent’anni, così faremo tutti a meno dei condizionatori. Mio cugino va a tutte le mostre d’arte che ci sono a Milano e poi le racconta in un blog in centomila battute che nessuno leggerà. Mio cugino fa cinquanta chilometri al giorno in bicicletta per andare e tornare dal lavoro sia che ci sia il sole sia che piova. Una volta è anche caduto e l’hanno portato d’urgenza in ospedale.

Mio cugino crede nell’Immacolata concezione e gli sta antipatico Sallusti. Mio cugino non sopporta i concerti classici dove mettono i microfoni su lunghe aste proprio davanti ai musicisti. Mio cugino porta un bicchiere con sé ovunque vada, perché è da cafoni bere l’acqua direttamente dalla bottiglia. Mio cugino dal 2006 misura le precipitazioni atmosferiche nel suo giardino e poi confronta i suoi dati con l’osservatorio idrogeologico di Canzo. Mio cugino conta le lucciole e dice che dieci anni fa ne vedeva anche undici tutte assieme, ora invece volano solitarie, tra qualche anno non ce ne saranno più se non facciamo qualcosa per l’ambiente. Mio cugino non mangia quasi niente ma gli piace lo spumante dolce. Mio cugino è stato appena operato di cataratta senile ma non vuole mettere il collirio, infatti vede tutto velato.

Mio cugino non ha una pagina Facebook, non ha mai posseduto un telefonino, non gli piacciono le foto in digitale. Mio cugino sarebbe il protagonista perfetto di un romanzo che racconti una qualche verità. Mio cugino è meglio di me perché crede ancora di poter cambiare il mondo.

Che poi, a pensarci bene, mio cugino non è neppure mio cugino.

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Flussi di coscienza

Quello che mi piace del mio blog è che funziona come un albero di ciliegie, una tira l’altra. La ciliegia dell’altro giorno è stato un post, programmato un attimo prima di scriverlo e pubblicarlo, dove invitavo a non accettare l’idea che tutto sia  già stato scritto, per esempio sull’amore. Pochi giorni dopo mi arriva una mail da chi vuole restare anonimo, che calamitato dall’argomento, racconta un suo episodio personale che per qualcuno risulta essere trito, per altri è un cliché, ma c’è anche chi dice no, insomma idee divergenti che si intrecciano. La mail poi è stata scritta senza punteggiatura, forse per simulare un flusso di coscienza, ma forse non era questo l’intento. Ora, a qualcuno questo pseudo-flusso piace, ad altri piace meno. Qualcuno osserva che togliere la punteggiatura non è necessario per creare un flusso di coscienza, si poteva ottenere di meglio «copiando» per esempio la scrittura di Cartongesso, un romanzo narrato interamente con la tecnica del flusso mentale. Altra ciliegia: la discussione si sposta allora dall’amore all’uso del flusso di coscienza: nulla di programmato.

Quindi oggi parliamo del flusso di coscienza, tema su cui non ho mai riflettuto sul blog ma nemmeno al di fuori, e ne parliamo proprio perché qualcuno che legge questo blog ha sollevato l’argomento nei commenti. Partendo dall’amore siamo giunti così, senza seguire nessuna programmazione trimestrale, mensile, settimanale, targhe pari e targhe dispari, al flusso di coscienza in base al solo stimolo dei commenti al post. Cari blogger, anziché dannarvi per essere seguiti siate voi a seguire i vostri lettori, drizzate le antenne e andate dietro ai commenti, perché spesso sono più stimolanti quelli dei vostri stessi post.

Ma lasciamo perdere le antenne del blogger e torniamo al flusso di coscienza.

Dunque, Cartongesso. Segnalato da Michele Scarparo come ottimo esempio per capire come servirsene, mi sono incuriosito e mi sono precipitato nelle recensioni che ha ricevuto il libro su Amazon. Come mi aspettato sono discordanti: c’è chi parla di genialità, e chi invece rivuole indietro i soldi. Direi che a questo punto è meglio leggersi qualche riga di incipit – ne bastano poche – per decidere in cuor proprio se questo benedetto flusso di coscienza può piacere o no.

L’avete letto? Bene, proseguiamo.

Riprendiamo adesso l’anonimo di ieri, che a quanto dice non era così consapevole di aver prodotto questa tecnica di scrittura. In questo modo possiamo confrontare i due testi, e decidere quello che più ci piace. Uno segue la punteggiatura, l’altro l’ha eliminata. Si possono definire entrambi flussi di coscienza? Michele giustamente osserva che la lettura del secondo brano, quello del post, pone delle difficoltà di comprensione, che invece nel primo non esistono. Quindi conta anche la leggibilità di quanto è scritto: se il cervello «scoperchiato», grazie a questa tecnica, riesce a trasferire i suoi pensieri nella mente del lettore come un testo più tradizionale. Vorrei quindi chiedervi di dare un giudizio sulle due forme di scrittura – una professionale e l’altra spontanea – in base a come affronteremmo la scrittura in rapporto anche all’efficacia della comunicazione e non solo alla bellezza estetica del linguaggio.

Calma e gesso. Tanto che ci siamo cerchiamo di ampliare il discorso. Sull’onda dei primi due testi ho iniziato a cercarne altri, per avere un confronto, un termine di paragone, o meglio un’unità di misura. E quale testo potevo spulciare se non il padre di tutti i flussi di coscienza, cioè l’Ulisse di Joyce?

L’Ulisse, con mio gran stupore, non inizia con un flusso di coscienza: no, no. Inizia come il più tradizionale dei romanzi. Non avendolo letto, ipotizzo che la sua famosa tecnica del cranio scoperchiato copra alcune parti del romanzo, ma non la sua totalità. Diciamo che Joyce la utilizza quando ne ha bisogno. E allora vi riporto di seguito un passaggio dove il flusso di pensiero è presente, in modo da poter meglio giudicare gli altri due testi anche in base a quello che vi comunica quest’ultimo.

 

«Mr Bloom camminava inosservato per un vialetto lungo file di angeli rattristati, croci, colonne spezzate, tombe di famiglia, speranze di pietra che pregavano con gli occhi al cielo, cuore e mani della vecchia Irlanda. Più sensato spendere i soldi in qualche opera di carità per i vivi. Pregate per la pace dell’anima di. C’è qualcuno che veramente? Piantala e falla finita con lui. Scaricato. Come il carbone giù per una botola di cantina. Poi lo ammucchiano insieme per guadagnar tempo. Il giorno dei morti. Il ventisette sarà alla sua tomba. Dieci scellini per il giardiniere. Le tiene sgombre dalle erbacce. Vecchio anche lui. Piegato in due con le cesoie, a tagliare. Vicino alla porta della morte. Che si è spento. Che si è dipartito dalla vita. Come se l’avessero fatto di loro volontà. Buttati fuori, tutti quanti. Che ha tirato le cuoia. Più interessante se vi dicessero chi erano. Il tal dei tali, carrozziere. Io rappresentante di linoleum. Io ho concordato con i creditori cinque scellini a sterlina. Oppure una donna con la casseruola. Io faccio un ottimo stufato irlandese. Elegia di un cimitero di campagna dovrebbe chiamarsi quella poesia di chi è Wordsworth o Thomas Campbell. Entrato nel riposo dicono i protestanti. La tomba del vecchio Murren. Il grande medico lo ha chiamato nella sua casa di cura. Be’ questa per loro è la sua terna consacrata. Bella residenza di campagna. Intonacata e ridipinta a nuovo. Luogo ideale per farne una fumatina e leggere il Church Times. Gli annunci matrimoniali non cercano mai di abbellire. Corona rugginosa appesa ai ganci, ghirlande bronzate. Miglior valore allo stesso prezzo. Però, i fiori sono più poetici. L’altro finisce per diventare noioso, non appassendo mai. Non esprime nulla. Immortalles».

 

Spero di aver trascritto il brano esattamente, ma se anche avessi dimenticato qualcosa, saltato una riga, storpiato un sostantivo, riuscireste a rendervene conto? Perché, potete dire quello che volete, ma questo flusso di coscienza è duro, molto distante sia dal primo sia dal secondo brano. Anzi, a mio parere getta una luce diversa su entrambi, perché il secondo mi pare avere più parentele con Joyce di quanto faccia Cartongesso.

E per concludere questa panoramica vi segnalo altri tre esempi di romanzi della letteratura italiana interamente basati su un flusso di coscienza, o di pensiero, con modalità più simili al primo brano che non a Joyce: Il male oscuro di Berto, Uno nessuno e centomila di Pirandello, Manuale pratico di giornalismo disinformato, di cui vi invito a leggere qui e qui e qui qualche riga, ne bastano poche per capire il meccanismo, per aggiungere altri elementi di giudizio articolato sulle possibilità espressive di un flusso di coscienza.

Mi rendo conto, infine, che la lunghezza di questo post e le relative deviazioni ipertestuali lo stiano rendendo improponibile. Ci sarebbe anche un altro genere di flusso, questo mio, basato sulle immagini più che sulla coscienza. Vi chiedo, per come è reso, se anche quest’ultimo abbia qualcosa in comune con l’argomento di cui stiamo parlando.

Si attendono con fiducia giudizi, opinioni, punti di vista, osservazioni personali sia in qualità di lettori sia, soprattutto, di scrittori che hanno usato/usano/useranno il flusso di coscienza per le proprie storie. Grazie.

 

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Metà piena, metà vuota

Ricevo e pubblico senza aggiungere una virgola:

 

Mia dolce metà,

quando ti ho lasciato la mano nel parcheggio e sono salito in macchina sono rimasto a guardarti mentre facevi il giro e passandomi davanti mi hai suonato salutandomi mi sono messo in moto e ho guidato fino a casa coinvolto ancora da tutta l’eccitazione del nostro incontro ho preso una birra mentre accendevo il computer sentivo ancora il profumo della tua pelle e il tuo corpo sul mio la mia bocca era umida del tuo sapore e non ho voluto bere la birra che me l’avrebbe portato via e ho avuto la gran voglia di cercare il tuo nome su google e di vederti sullo schermo eri persa tra altre donne che hanno il tuo stesso nome ma tu sei diversa e sorridevi con lo stesso sorriso di quando facciamo l’amore in quella camera ho cliccato sulla foto perché volevo ingrandirla e mi è apparsa una pagina e scorrendo con la rotella del mouse per ritrovarla c’era un video stupidamente preso dalla felicità del nostro incontro appena concluso ci ho cliccato sopra ed è partito c’eri tu con una musica romantica di Vasco in sottofondo che sorridevi sempre c’erano tante foto non finivano più ma non eri sola c’era sempre lui vicino a te abbracciati ridevate facevate le boccacce vi baciavate al mare al lago in montagna al ristorante sul vaporetto in spiaggia a Vienna al tramonto il video durava un casino scusami se non l’ho visto fino in fondo ma cazzo sei sempre tu e tuo marito nelle foto non mi sembra che te la passi così male come mi dici dopo che abbiamo fatto sesso per due ore quando sfiniti guardiamo il lampadario di Murano della camera d’albergo non mi sembra che stai tanto in crisi che non parlate più vivete come due fratelli non fate sesso che lui è la tua prigione a me sembra invece la tua metà piena mentre io ti vedo solo per tre ore al lunedì pomeriggio in un motel con il portiere che mi dà le chiavi e mi dice che la camera deve essere libera massimo per le sette le prime volte non ce lo diceva ho capito allora che sono solo un uomo da materasso il tuo sfizio del lunedì che durerà finché durerà e allora mi bevo la birra per allontanare il tuo sapore mi sento morire e vorrei immediatamente scriverti una mail di quanto mi fa male averti visto con tuo marito che neanche sapevo com’era in un video così cretino che però per voi dev’essere importante significherà molto se l’avete messo su youtube perché tutti quelli che conoscete possano vedere come vi volete bene ora l’ho visto anch’io solo geloso di rabbia e ti lascerei oggi stesso se avessi la forza invece lunedì verrò come al solito al parcheggio del motel e non ti dirò nulla mentre saliremo in stanza e più ti sorriderò a letto e peggio mi sentirò dentro starò di merda e me lo merito non mi merito altro questo è tutto quello che mi merito volevi leggere qualcosa di nuovo e originale sull’amore Helgaldo te la dico io allora una cosa nuova sull’amore vorrei che quando in quel letto mi parlerà del suo matrimonio a rotoli dopo avere scopato per due ore mentre guardiamo il soffitto il lampadario si staccasse e mi cadesse in testa vorrei morire così nudo come un verme per amore di una donna che torna a casa prima delle sette per preparare la cena alla sua dolce metà piena.

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Il diavolo e l’acquasanta

I punti di interscambio della metropolitana di Milano, e le relative brevi attese dei convogli, offrono al lettore attento, sempre in guardia, inaspettati incontri con le parole. Alla stazione Cadorna, per esempio, in questi giorni ci si può imbattere in due pubblicità sugli enormi cartelloni che tappezzano le fermate di M1 e M2, che solo a una prima lettura superficiale e distratta non hanno nulla in comune tra loro.

La prima è di Gram, nota azienda gelatiera, che invoglia il lettore-consumatore a un assaggio del suo celebre gelato, grazie a un concept semplicissimo, a caratteri cubitali: «Imperfetto, ma vero».
Qualche cartellone più in là, invece, i copywriter di Visit-Corsica.com invitano ad assaggiare l’isola francese nel cuore del Tirreno con la campagna «Naturalmente in Corsiva!».

L’istinto mi ha portato a trascrivere i due concept in due momenti diversi, anche se ravvicinati – in più punti della stazione sotterranea incontriamo ossessivamente le due pubblicità –, ma la teofania mi è apparsa chiara e intera solo quando girandomi ho visto i due cartelloni affiancati nel breve tratto di banchina che serve per spostarsi dalla linea verde direzione Abbiategrasso alla linea rossa direzione Duomo.

In quel punto l’apparente diversità merceologica, grafica e dei testi viene annullata: le due pubblicità risultano strutturalmente identiche. A parte il richiamo alla natura, che vale per entrambe, da lettore ma anche da scrittore quello che mi interessa è l’identica costruzione del concept. Tre parole, la prima lunga, poi una cortissima, infine il vocabolo che deve colpire l’immaginazione. Stesso schema.
Ma chi di voi dovesse percorrere frettolosamente quel breve tratto di pavimentazione, si fermi un attimo a osservare la collocazione spaziale delle parole all’interno del cartellone. Noterà che la prima è isolata, solitaria, e dopo un a capo, sbandierato a sinistra vengono le altre due parole.

Dubito che le campagne siano state affidate alla stessa agenzia pubblicitaria che abbia copincollato la modalità di visione dell’una per l’altra. Mi viene quindi da supporre che esistano strutture linguistiche e rese grafiche che funzionano meglio di altre nel raggiungere efficacemente l’attenzione del consumatore-lettore con accresciuta efficacia.

Se è possibile per la pubblicità questa precisione sul target, grazie anche a determinate conoscenze tecniche, dovrebbe essere possibile anche per un romanzo destinato alla catena inversa lettore-consumatore. Sicuramente la lettura è l’amo per giungere all’acquisto: viaggio, gelato o libro il principio è identico. Lo dico soprattutto per quelli che producono sinossi disordinate e strilli pretenziosi e deboli per i propri libri. Messe al posto giusto, tre semplici parole sono sufficienti.

Ottimale sarebbe poi leggere un bel libro su una stupenda veranda, la sera al tramonto, in Corsica, gustando un gelato prodotto a regola d’arte.

Buone vacanze da Helgaldo

 

Dio detta all’uomo. Il diavolo direttamente scrive.
Qualcuno in tempi lontani, con felice sintesi, ha contratto il nome Helgaldo in Hell, o Hel: demone minore dei blog, sempre polemico, accigliato, fastidiosamente professorale, si picca di insegnare ai comuni mortali – il diavolo non lo è, mortale – i segreti della buona scrittura. Come se lui avesse mai scritto qualcosa di acquistabile e leggibile. Sempre pronto a ingannarvi per farvi precipitare, ad allontanarvi dalla retta via della pubblicazione. Non seguitelo.

Creatore malefico di bugie, di storie senza capo né coda, di citazioni ed esperienze inventate di sana pianta, mai accadute: ne è una dimostrazione questo breve frammento, buono per sedurre gli sprovveduti e gli ingenui, predica corrotta. Non è vero niente dei fatti che racconta, tutto nel suo blog è racconto, falsità, a partire dal nome stesso di chi ne è autore. Basta una semplice verifica empirica per rendersene conto: è vero che in rete c’è la conferma che le due campagne pubblicitarie citate esistono, e ci sarà in giro per Milano qualche cartellone pubblicitario che le attesta. Provate invece a percorrere quel breve tratto indicatovi con certosina precisione, dove dovrebbero essere accostate: non troverete niente.

La costruzione letteraria, l’inganno che si regge sulla precisa descrizione fisica, testimoniale ma di una testimonianza falsa, ha come scopo infiltrarsi nella vostra immaginazione, come un soldato guastatore oltre le linee nemiche. Basterà camminare e giungere sul luogo indicato come ho fatto io per veder crollare i castelli di carta su cui è costruito questo testo, vuoto pneumatico di pensiero e verità. Da dove sto scrivendo – editoria, appunti di scrittura, fiction. Soprattutto fiction, signori miei. Solo fiction. Ma non le sentite le risate dell’improbabile «lezione» di scrittura?

Nel frattempo lui ghigna dai bassifondi, dalle fogne in cui vive, della vostra appassionata lettura. Il consiglio che vi dà è del tutto inservibile, pindarico, stravagante. L’occhio del critico, invece, svela il vero scopo della pseudo-riflessione che vi ha abbagliato per un attimo facendovi solo perdere tempo.
La sua furbizia infernale consiste nell’usare parole di un contesto, e grazie alle infinite combinazioni della vita, trasferirle in un altro.

«Naturalmente un manoscritto» è questo quello che lui ha in testa, il prologo del Nome della rosa, dove Eco finge il ritrovamento delle memorie di Adso da Melk. Finzione letteraria, motore della storia celato dietro a quel «Naturalmente in Corsica!». Per deridervi.
«Imperfetto, ma vero» è invece quel romanzo che Hell vorrebbe farvi scrivere, ma che lui di certo non scriverebbe mai, in contrasto con le leggi di tutti i manuali di scrittura che propongono giustamente le regole per costruire il romanzo perfetto, tanto perfetto da sembrare vero, e di cui si sente spesso la mancanza nella letteratura odierna. E a cui invece vi prego di tendere.

Instillare l’idea sottile e traslata che nell’imperfezione stia il vero, è tipica dei demoni. Non seguite quell’invito, anche se nascosto dietro altra innocente materia, non leggete i cartelloni, non apprendete da essi i segreti del marketing, pensate solo con la vostra testa. Non traete lezioni da chi non ha lezioni da offrirvi. Dissociatevi da questo blog, salvate la vostra scrittura dall’eterno Nulla. Vade retro, Helgaldo.

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Qualcosa di nuovo sulla morte

Passata la Madonna dell’Orto e seguiti per pochi passi i portici del centro svoltai poi su per la rampa che conduce all’ospedale e giunsi in breve dove il malato non si attendeva di vedermi: sulla balconata degli incurabili, stesi al sole. Mi scorse subito e non parve sorpreso. Aveva sempre i capelli cortissimi, rasi da poco, il viso più scavato e rosso agli zigomi, gli occhi bellissimi, come prima, ma dissolti in un alone più profondo. Giungevo senza preavviso, e in giorno indebito: neppure la sua Carlina, l’angelo musicante poteva essere là.
Il mare, in basso, era vuoto, e sulla costa apparivano sparse le architetture di marzapane degli arricchiti.
Ultima sosta del viaggio: alcuni dei suoi compagni occasionali (operai, commessi, parrucchieri) ti avevano già preceduto alla chetichella, sparendo dai loro lettucci. T’eri portato alcuni pacchi di libri, li avevi messi al posto del tuo zaino d’un tempo: vecchi libri fuor di moda, a eccezione di un volumetto di poesie che presi e ora resterà con me, come indovinammo tutti e due senza dirlo.
Del colloquio non ricordo più nulla. Certo non aveva bisogno di richiamarsi alle questioni supreme, agli universali, chi era sempre vissuto in modo umano, cioè semplice e silenzioso. Exit Fadin. E ora dire che non ci sei più è dire solo che sei entrato in un ordine diverso, per quanto quello in cui ci muoviamo noi ritardatari, così pazzesco com’è, sembri alla nostra ragione l’unico in cui la divinità può svolgere i propri attributi, riconoscersi e saggiarsi nei limiti di un assunto di cui ignoriamo il significato. (Anch’essa, dunque, avrebbe bisogno di noi? Se è una bestemmia, ahimè, non è neppure la nostra peggiore).
Essere sempre i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha avuto da te quest’alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile della virtù) può attendere senza fretta il libro delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quelle che si scrivono.

 

L’ultima visita di Montale a un poeta minore, l’amico Fadin, non la conoscevo. E voi? Mi è stata offerta ieri su un foglio volante, che vi ho trascritto. Parlavo d’amore nel post precedente, e oggi di quest’altro argomento, che strano! E poi d’estate, in pieno luglio, col sole. Lo stesso sole immortale e indifferente, ultima cura caritatevole ai malati di tubercolosi di un tempo. Si può parlare della morte dicendo qualcosa di nuovo, mai detto da nessun altro prima? Montale sembra che ci riesca.
Ma qui protagonista come al solito è la prosa. Resto ammaliato dalla sua scrittura, e poi perché? Mi stupisco che un nobel per la letteratura sappia scrivere con tanta espressività e ironia della morte stessa? Credo forse che gli abbiano dato il nobel solo per Ossi di seppia e al di fuori di quello non poteva essere un prosatore dello stesso livello di Hemingway, di Joyce, di Pirandello?

Quante invenzioni letterarie in questo breve ricordo. Molto più intense che in pagine e pagine di romanzo, anche di nobel affermati.

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Qualcosa di nuovo sull’amore

Questa cosa che tutto è già stato scritto da Omero, da Dante, da Shakespeare, e perciò quello che possiamo fare noi che siamo venuto dopo, molto dopo, consiste solo nel trovare nuove forme per dire le stesse cose che sono state dette da quelli che hanno avuto la fortuna di essere venuti prima, ma sarà poi vera fortuna?, ecco a me questa storia non mi convince affatto.

Prendiamo per esempio l’amore, un tema universale, che figurati cosa si può dire di nuovo sull’amore. Innanzitutto ci sono le mail, che prima non c’erano. Non è che Dante poteva scrivere una mail a Beatrice. E poi c’è la rete, che prima non c’era, e puoi comunicare un sentimento forte, qui e ora, a un altro essere dall’altra parte del mondo, lì e ora. E anche questo non c’era, non è che Dante poteva scrivere una mail a una Beatrice indiana, americana, peruviana, australiana, groenlandese, che nemmeno sapeva che esistessero altri continenti. Per lui c’era solo inferno, purgatorio e paradiso. Quindi, perché negarlo, siamo messi meglio noi, nelle lettere d’amore rispetto a Omero, Dante, Shakespeare, questo bisogna pur dirlo per onestà intellettuale o almeno geografica.

Eh, ma uno dice: sì, però loro hanno scritto parole memorabili sull’amore, che noi neppure a starci cent’anni riusciremmo a esprimere, non è una questione di mail, di continenti, di progresso tecnologico. Ma infatti, dico io, non è una questione di mail, ma nemmeno di Dante. Non è che possiamo qui e ora intendere l’amore come lo viveva Dante pensando la sua Beatrice. «La sua Beatrice», questo è l’amore per Dante in una certa fase della sua vita.
Qui e ora, addì 20 luglio 2017, non è che dobbiamo parlare «alla sua Beatrice» in altri modi ma con lo stesso spirito, ma possiamo parlare – l’amore non è mai un dovere è sempre un potere – alla nostra Elisa, Martina, Simona, Paola, scegliete voi il nome che più vi sta a cuore, ma vale anche per le signore, scegliete i Marchi, i Giovanni, gli Stefani che più vi ispirano, inoltre Beatrice
non avrebbe potuto rispondere perché non sapeva scrivere, ma se avesse saputo scrivere chissà a chi avrebbe scritto, non è detto proprio a Dante, magari a un ragazzino, un garzone di bottega, e soprattutto cosa gli avrebbe detto o confessato, mi sono perso nella frase ma sicuramente voi che cogliete sempre tutto al volo avrete compreso ugualmente.

Perciò oggi, 20 luglio 2017, dopo la lettura di questo post – io lo dico per voi perché questo è un consiglio di scrittura che non lo trovate sui manuali a pagamento mentre io ve lo offro gratuitamente, perché l’amore è gratuito, e sull’amore a pagamento ci possiamo, se volete, se interessa, tornarci un’altra volta; dicevo, dopo la lettura di questo post potete (non è certo un obbligo) scrivere una mail d’amore alla persona che amate, oppure – che è ancora meglio, cosa nuova e inaspettata – a una persona che potreste amare, ma non glielo avete mai detto per i tanti motivi per cui certe cose non si dicono. E potreste immaginare, perché uno scrittore che non ha immaginazione dovrebbe fare il politico che lavora con le parole ma non con il cuore e la fantasia, potreste immaginare di andare al primo appuntamento con il destinatario della vostra mail. E raccontargli nella mail il vostro stato d’animo mentre andate al primo appuntamento, i vostri timori e le vostre speranze che nasceranno da questo primo incontro, che magari avete fissato davanti a uno stadio vuoto, al cancello 22, per esempio, in modo che se lei o lui verrà all’ora stabilita, vorrà già dire qualcosa sull’amore, di nuovo e non verbale, che né Dante, ma nemmeno Omero, e neppure Shakespeare hanno detto a Beatrice e a tutte le altre. Che al cancello 22 dello stadio vuoto, oggi 20 luglio 2017, ci siete solo voi e lei o lui, o lui per lui, o lei per lei. E quello che vi dirà lei o lui, se verrà, ma anche se non verrà, ma vi scriverà per mail il motivo o i motivi per cui non è venuto, non è potuto venire, non se l’è sentita di venire, sono sicuro come del mio stesso nome – io mi chiamo Helgaldo – che non l’ha vissuto né detto né raccontato nessuno in tutta la storia dell’umanità da Adamo ed Eva in poi, che anche loro qualcosa si saranno pur detti al primo appuntamento davanti al cancello 1 del giardino che Dio gli aveva appositamente progettato, che se se lo fossero scritto sapremmo qualcosa in più sull’amore.

Perciò questa è cosa nuova sull’amore, mai nessuno l’ha scritta, ne sono sicuro, perché se non la scrivete proprio voi e proprio oggi 20 luglio 2017 non verrà mai alla luce. E poiché è una cosa nuova, ed è la vostra esperienza sull’amore, se non la scrivete, domani non lamentatevi che non si può dire nulla di nuovo in nessun campo. Perciò dovete scriverla, ma non per pubblicarla. Non dovete scrivere qualcosa di nuovo sull’amore per pubblicarlo, perché sarebbe qualcosa di nuovo a scopo commerciale. Scrivetelo e basta, e poi speditelo. Solo così, se rischierete tutto questo, mettendoci cuore e cervello e onestà di sentimenti, potrebbe anche succedere che ne esca qualcosa degno di Omero, Dante, Shakespeare, quindi della letteratura alla pari di un sonetto o un verso, anche se sarà contenuto in una vile mail. Ma se seguirete le indicazioni di cui sopra scoprirete che una mail non è altro che un supporto come lo è stato il papiro o la carta, per esprimere concetti nuovi. E in più del tutto vostri, che li avete nell’anima ed è il momento di esprimerli, cari scrittori.

 

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Annotazioni in equilibrio precario

Tanti anni fa un mio amico, pessimo di penna ma ottimo con la matita nel ritrarre, mi raccontò di avere visto sull’autobus partito bruscamente alla fermata, un uomo grande e grosso e per giunta grasso al centro del pianale dell’automezzo che cercava di reggersi disperatamente a qualcosa per non cadere. Appena sfiorava una maniglia ecco che l’autobus sobbalzava facendolo barcollare all’indietro, allontanandolo dalla presa. E lui, tentando di controbilanciarsi provava a raggiungere il paletto più vicino, ma un altro scossone improvviso lo fletteva di lato e per restare in piedi doveva danzare con le gambe e con le braccia puntando allo schienale di un sedile che quasi raggiunto si allontanava beffardamente come l’onda di ritorno del mare, mentre il suo corpo cercava un nuovo e perpetuo punto di equilibrio per restare in piedi. Ondeggiando per tutto il tragitto fino alla fermata successiva.

L’immagine, o se preferite la scenetta, dell’uomo grasso perennemente in cerca di un punto di equilibrio, mi colpì molto allora, non l’ho più dimenticata. Mi sembra quasi una metafora della vita. Una metafora però semplice e casuale, trovata e non cercata, che si può raccontare come semplice fatto o come sintesi finale di fatti slegati tra di loro. Metafora che non necessita di spiegazioni. Del tutto naturale.

Però in questo racconto c’è anche l’osservazione, colui che coglie un fenomeno, che registra con una webcam mentale un’ombra, un passo, uno sguardo, una situazione. E anziché scordarseli poco dopo, li annota per il gusto di annotarli.

Gli scrittori, quelli veri che lo sono ventiquattrore al giorno, di situazioni simili ne scorgono  in continuazione. Alcune finiranno nei romanzi, la maggior parte invece resterà confinata in un umile taccuino che solo i critici, dopo le esequie, andranno a spulciare. Anche questa è letteratura, letteratura minore. A me sembra sia la parte migliore della commedia umana – anche della tragedia –, quella che veramente fa la differenza, la polpa più gustosa dell’essere scrittori.

Qualcuno mi dice che osservazioni di questo genere gliene capitano di continuo, ma poi se le dimentica e restano solo dei semi, delle sensazioni, nel suo cuore. Perché invece di lasciarli solo lì, che già va benissimo, non li affidiamo anche a una pagina che tutti possano arricchire e al contempo depredare?
Ho così pensato di crearla, decidete poi voi se e quando servirvene.

Una raccomandazione: questa non è prosa, ma solo annotazioni grezze anche se cariche di senso. Non è la bella scrittura o la spiegazione che conta in questo contesto, ma l’osservazione attenta di un fatto nudo e crudo. Dieci righe o tre parole, non importa.

Cercate di restare in equilibrio come quell’anonimo passeggero tra gli scossoni, mentre scrivete. E poi buttate le vostre osservazioni in quella pagina, come in una buca delle lettere: qualcuno verrà di sicuro a leggerle. Domani o fra cent’anni, a noi che ce ne importa?

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Il tram della notte

Milano è sempre vivace, anche di notte. L’ultima corsa notturna dei suoi tram, verso l’una di notte, porta verso le periferie gente che ha ancora voglia di birra e di divertimento; oppure di arrivare a casa in fretta e coricarsi dopo una giornata torrida e da dimenticare. Li vedo salire in massa alla prima fermata dopo il capolinea: io sono già accomodato per i fatti miei vicino al finestrino, con un libro spalancato in mano, immerso nelle pagine.

Questa vita notturna mi piace. Un po’ leggo, un po’ osservo intorno senza mai incrociare sguardi. Ci si imbatte in personaggi strani, a volte. Mi chiedo se sono quelli giusti per il romanzo che non scriverò mai. Chi sono, cosa fanno, perché si spostano di notte, da dove vengono. Cerco di immaginare le loro case, i quadri che hanno alle pareti. Alcuni non possiedono quadri, ma direttamente l’urlo originale di Munch. Mi chiedo se dormono su un divano sfondato – giurerei di sì per molti di loro –; e ancora, se hanno qualcuno che li aspetta a casa: qualcuno sarà stato appena lasciato e sale sul tram con mezza birra ciondolante in mano, più altre cinque in corpo e nell’anima. Questi i pensieri che si inframmezzano tra un paragrafo e l’altro di Gadda, rallentandone la lettura.

Non me ne sono accorto, ma una coppia si è ricavata un angolo di tram poco distante da me. Non proprio un angolo per la verità: una nicchia. Lei ha trovato posto a sedere e lui è in piedi, vicinissimo, che le parla quasi appiccicato. Lui gesticola, è di spalle, non so che faccia abbia. Ma da dietro sembra un armadio a sei ante. Lei invece, quando lui traballa leggermente per gli strappi improvvisi del tram, mi appare di tre quarti. Sarà a due metri, un metro e mezzo da me, sulla diagonale. Se inclina leggermente la testa in avanti tocca la pancia di lui, tanto lui le sta a contatto. Per guardarlo in faccia, deve reclinare il capo all’indietro, mi sembra un po’ soffocata dalla postura del suo uomo.

Che è il suo uomo si capisce da come ridono e gesticolano. Con la mano destra che non si tiene al tram, lui tenta di colpirla con degli schiaffetti sulle guance. Lei si ritrae, si difende, ride. Torno al mio Gadda: «”Mària Vergine!”, come ammettendo di poter essere sospettata del contrario. No, la servente no la gera de Marino, no la gera dei Castelli Romani…». E sento un ciaff!

Allora alzo gli occhi dal Pasticciaccio, e vedo che seguitano i colpi e le parate. Mi rituffo nella pagina e un altro ciaff!, più sonoro questo. Guardandola ora lei non ha più lo stesso sorriso, ma è quasi sorpresa. Alza gli occhi all’uomo e non tenta più di difendersi. Lui prima fa una finta, e poi prova una carezza che non è gradita, perché lei ritira il viso, allora la carezza si trasforma in uno schiaffo, leggero ma voluto. Lei alza lo sguardo, muove le labbra, ora smettila sembra dire, e stringe a sé la borsa. Non giocano più. Ma lui la opprime con la sua muscolatura e c’è sempre quella mano libera che vuole giocare a schiaffi, anche se ora gioca ormai da sola. Forse qualcuno guarda, gli altri proprio non li vedono. E io riabbasso gli occhi al libro, ma di leggere non ho più voglia.

Ogni tanto torno su di loro, lui parla dall’alto, si esprime soprattutto con lo sguardo che io non vedo, lei non vorrebbe più trovarsi lì, imprigionata sul sedile. Non può né alzarsi, né alzare il viso, perché quando lo fa lui agita la mano e questo è sufficiente per far sì che lei debba proteggersi, ma ridacchiando, ma non con un bel sorriso sincero. Non sono fatti miei, in fondo non sta succedendo niente, una coppia che scherza per i fatti suoi e se guardassi l’uomo con espressione interrogativa quell’armadio so cosa mi direbbe in faccia: fatti i cazzi tuoi. Desidero che scendano, come vorrei scendessero.

Forse mi hanno ascoltato perché lui le si allontana leggermente e lei può finalmente alzarsi, e io mi rituffo dentro il libro abbassando il capo, perciò lui non lo vedo mentre mi sfila via. Vedo solo la sua mano destra e forte che tiene stretta la sinistra di lei, che lo segue docile con un sorriso disegnato sulle labbra, ma pietrificato, smorto, e due occhi neri impauriti e imploranti una grazia per una punizione che sente arriverà. Per quale colpa poi?

Non vi dirò se erano italiani o stranieri, vi dico solo che erano un uomo e una donna. Tanto basta. Ora ci vorrebbe uno scrittore, o una scrittrice, che si prendesse l’onore e l’onere di raccontare questi fatti in un romanzo. E se pensate che di romanzi che già parlano di queste cose ce ne sono troppi in giro, per cui è inutile aggiungerne un altro, vi dirò che proprio per questo è utile aggiungerlo.

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Oltre il finestrino

Banchina bagnata. Gocce di pioggia sul finestrino formano una costellazione trasparente. Alcune grosse, irregolari. Altre più piccole, tondeggianti. La banchina è finita.

Alberi, graffiti sui muri, pannelli solari. Prati coltivati. Frumento, grano. Catone Trasporti, filari di betulle. Campi squadrati, vegetazione spontanea, rovi. Una cascina diroccata. Roggia, ruscello. Una ciminiera si erge a righe orizzontali bianche e rosse in lontananza. I binari convergono, treno merci, ferraglia, cisterne, stazione. Solo 2 cl S1.

Auto parcheggiate a lisca di pesce. Nuovi muri graffitati e sbriciolati. Una strada asfaltata, capannoni industriali a perdita d’occhio. Una linea ferroviaria scorre parallela, si innalza. Sopraelevata. Ponte, piloni nell’ombra. Villette a schiera. Banchina deserta e asciutta. C’è il sole. Do not cross the railway lines.

Grano che cresce, piantine sottili. Carcassa di autobus azzurro, segnali stradali ammassati, traliccio nel campo. Case, case, villette, tegole basse, palazzi. Una parabolica, un’altra. Audi bianca che riflette i raggi del sole, sullo sfondo il fogliame danzante nel vento. Un treno taglia l’aria improvviso. La costellazione di gocce è svanita, ne restano cinque nell’angolo in basso a sinistra. Divieto di accesso.

Binari morti prendono vita, entusiasti si lanciano avanti. Trattore nei campi. File di auto in coda come scatole di latta su un nastro d’asfalto. Distese di grano e di terra. Due giovani neri su una panchina in banchina. Un nano incerto sulla direzione da prendere nel sottopassaggio. Altro treno, ma lento.

Sterpaglie, sfumature di verde. Buio improvviso, pallida luce. Un palazzo con disegni a losanghe. Tag nere offendono i muri bianchi in stazione. Uscita/exit a destra e a sinistra. Parallelepipedo grigio con balconi minuscoli. Lenzuoli ad asciugare. Buio. Buio profondo. Scompartimento riflesso nel buio. Me stesso riflesso, sguardo perplesso. A caratteri cubitali BAD DEAL. Palazzi di vetro, Unipol Sai sospesa nel cielo. Divieto di sosta ai pedoni. Vietato attraversare i binari. Qui tutto è vietato alla gente. Immigrato che si tiene tra le mani la testa, sta forse piangendo.

Nuovi binari si aggiungono ad altri binari usciti dal nulla. Il mio binario è ora uno dei tanti, insignificante binario, binario perso tra gli altri. Vorrei viaggiare su quelli rimasti liberi e vuoti che portano altrove. Stazione. La gente che aspetta.

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