Io con De Mauro ho avuto il privilegio di lavorare, e non due giorni. Però prima di parlare di questa esperienza devo parlare, anch’io come tutti, di un suo libro. Mi sono laureata a 23 anni in Lettere Moderne, con tesi in Storia della lingua italiana; era una materia della quale mi ero innamorata quasi per caso. Poco dopo esce un libro il cui titolo mi incuriosisce: Storia linguistica dell’Italia Unita. Avevo studiato, naturalmente, la Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini, l’unica che esistesse a quel tempo. Ma questa, già dal titolo, mi pareva una cosa diversa. E la era: non la storia di una lingua, ma la storia di un paese attraverso la sua lingua. Un libro che mi ha cambiato la testa, un libro che per fare la storia linguistica studiava, prima di tutto, l’analfabetismo e il lento e difficile procedere dell’alfabetizzazione in Italia; un libro che considerava fondamentali gli aspetti quantitativi della lingua, dei quali fino ad allora non era fregato niente a nessuno. Intanto, proprio a causa della mia laurea, mi era stato offerto un lavoro dalla casa editrice Garzanti, che stava allora cominciando a produrre un vocabolario della lingua italiana; un lavoro che ha fatto di me una lessicografa. Questo termine a dir la verità l’ho sempre usato, quando mi chiedevano “che lavoro fai?”, solo per divertirmi a vedere le facce stupite degli astanti; altrimenti dicevo “lavoro in casa editrice e mi occupo di vocabolari”.
Poi un giorno, non so come, vengo a sapere che l’autore della Storia linguistica dell’Italia Unita è un certo Tullio De Mauro e ha solo 7 anni più di me: quando il libro è uscito io ne avevo 23, lui 30. Faccio fatica a crederlo, non solo per la profondità del ragionamento, che uno molto più bravo di me può anche avere a 30 anni, ma per la quantità della documentazione sulla quale si basa quella storia, che non capisco come uno abbia potuto leggere, studiare, analizzare in così pochi anni. Allora me lo figuro come un topo di biblioteca, uno sgobbone, certo geniale, ma inevitabilmente noioso. Leggo qualche altro suo libro, e in verità noiosi non sono; ma finisce lì.
Passano molti anni, io sono sempre alla Garzanti e “il dottor Livio”, l’editore, affida a De Mauro l’incarico di impostare e produrre un grande vocabolario di concezione del tutto nuova. La redazione è a Roma, De Mauro è autorizzato a formarla con persone di sua fiducia, suoi ex allievi, in pratica; e la dirige. Passa quasi un anno, poi un giorno l’editore mi chiama e mi dice che mi vuole affidare il compito di seguire quella redazione. Salto di gioia, anche se il momento della mia vita è difficile, ho in famiglia un malato grave che può fare a meno di me, ma non a lungo. Comincio i viaggi a Roma, 3-4 giorni ogni due settimane, sempre tornando di corsa e con il cuore in gola. L’editore vuole che io gli dica come viene l’opera, ma anche che io faccia una previsione di tempi e di soldi. Gli dico che l’opera viene del tutto nuova, e bellissima; per la previsione ci metto un po’ più di tempo ma la faccio, fa parte del mio lavoro; e lui comincia a dire che è troppo. Livio Garzanti era uno che si innamorava di autori, di collaboratori, poi gli passava e cominciava a detestarli. Con De Mauro stava andando così, e la mia previsione era poco più di una scusa per levargli l’incarico. Io ho fatto di tutto per evitarlo, ma era impossibile. De Mauro aveva chiesto più di una volta a Garzanti di fare dei conti di tempo e di denaro, perché questo era compito della casa editrice, dell’industria che gli aveva commissionato il lavoro approvando i criteri con cui lui intendeva farlo. Ma Garzanti solo allora si era deciso a farli fare, quei conti. E proprio a me.
Però un po’ di tempo era passato durante il quale io avevo lavorato con la redazione e con Tullio: si discuteva di come fare alcune cose, di come scrivere, di quanto tempo ci volesse per ogni operazione fatta bene. E lì io scoprivo man mano un uomo speciale, piccolino e con le orecchie a sventola, grande conoscitore delle cose di cui parlava, affascinante quando le diceva, ma anche spiritoso, uno a cui la battuta veniva fuori da sola, divertentissima ed elegante. A casa, quando partivo per Roma, dicevo che andavo “dal mio topino” e ho ancora un topino di lego, rosso con grandi orecchie gialle, che mio figlio mi aveva regalato in suo onore.
Erano i primissimi tempi dell’informatica e con me venivano spesso a Roma dei programmatori e anche il direttore del centro elettronico della casa editrice, il mio amico Annino Stoppa. Allora ctrl era una parola magica, rappresentava gli automatismi che facilitavano il lavoro dei redattori e loro ne chiedevano continuamente di nuovi, finché un giorno De Mauro se ne viene fuori con “Così anche noi potremo dire: ho fatto il vocabolario con Control”. In quei giorni Roma era tappezzata di manifesti che dicevano “Ho fatto l’amore con Control”, che era una marca di preservativi.
Quanto io abbia imparato da lui non riesco a raccontarlo. E non solo sul piano linguistico e culturale, anche per la dignità e la correttezza. Quando Garzanti gli disse, con tono di rimprovero, che la sua opera avrebbe richiesto troppo tempo e troppo denaro, lui rispose, serafico e ironico, di essere soltanto “un intellettuale della Magna Grecia” a cui toccava stabilire i criteri e i requisiti scientifici dell’opera, mentre fare i conti economici toccava all’imprenditore del Nord. Se ne andò senza sbattere la porta e senza portar via nemmeno un campione del lavoro che era stato fatto, senza copiare su un dischetto né una voce scritta, né il fascicolo delle regole redazionali. Né mai pensò di farmi una colpa per aver fatto quei conti, sapeva che erano parte del mio lavoro.
La fine di quella collaborazione è stata la causa non ultima della mia decisione di lasciare la casa editrice nella quale avevo lavorato 27 anni; cosa che ho fatto poco dopo. De Mauro non me l’aveva chiesto, ma senza che lui lo sapesse ho cercato un altro editore che volesse riprendere il suo progetto; ho provato con Rizzoli, con cui avevo buoni contatti, ma non andò bene; indirettamente feci sapere la cosa a Utet, e lì il lavoro ripartì, ma senza di me, che lavoravo altrove. Il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (in gergo lo chiamiamo Gradit) è uscito in 6 volumi per Utet nel 1999, una decina d’anni dopo la disavventura garzantiana. Nel frattempo la Utet, per anticipare il rientro economico, aveva ottenuto da De Mauro di far uscire per Paravia una versione monovolume che poteva andar bene per le scuole, ma i nostri insegnanti, mi duole dirlo, si spaventarono della novità e continuarono a consigliare quei dizionari che un po’ si assomigliano tutti, dallo Zingarelli al Devoto-Oli, compreso il mio caro Garzanti. Uscirono tra il 1996 e ’97, sempre per Paravia, anche il Dib (Dizionario italiano di base) e il Daic (Dizionario avanzato dell’italiano contemporaneo), opere importantissime ma anch’esse meno fortunate di quanto meritassero; almeno però, a differenza del monovolume Paravia, ancora oggi in commercio. Un’altra rivincita del mio caro topino è che ormai anche i dizionari scolastici, praticamente tutti, segnalano in qualche modo le parole che ritengono far parte del “dizionario di base”, quello che, come proprio lui aveva dimostrato, coprono intorno al 98% di qualsiasi testo o discorso italiano possiamo incontrare nella nostra vita. Un fatto, questo, che ancora, quando lo racconto agli allievi del master in editoria nel quale insegno, li stupisce, perché in tanti anni di studi più o meno umanistici nessuno glielo ha mai raccontato. E io allora gli consiglio La fabbrica delle parole, un libro uscito per Utet nel 2005 che altro non è se non l’introduzione al Gradit: l’unica introduzione a un vocabolario che abbia meritato di diventare un libro a sé, e che libro!
A parte i libri, però, io De Mauro non l’ho mai mollato. Ogni volta che ho potuto ho partecipato, nel pubblico, a conferenze, convegni, riunioni dove lui fosse relatore: oltre alle sue relazioni mi piacevano da matti le domande che faceva agli altri, sempre profonde, spesso sornione. L’ultima occasione che ricordo era qui a Milano, all’Università Bicocca, e lui discuteva con neurologi, studiosi di preistoria, biologi, oltre che linguisti, su un tema da niente come l’origine del linguaggio umano. In tutti questi casi c’era tra noi due una piccola cerimonia: alla fine, o a un certo punto se la cosa era lunga, lui si allontanava e infilava una qualche porticina che portava all’esterno; io lo seguivo e quasi insieme ci accendevamo la sigaretta. Sì, perché lui era tossico, come me. Lì ci salutavamo, spesso con un abbraccio: io gli ho detto fin dalla prima volta che quel tipo di spazio lo chiamavo “l’angolo del tossico” e lui aveva accettato quel nome con uno dei suoi sorrisi ironici.
Ironico, spiritoso, ma nella sua vita c’era un grande peso, del quale però non parlava mai: il rapimento da parte della mafia di suo fratello Mauro, giornalista de “L’ora” di Palermo, mai più ritrovato vivo e neppure morto. Non ne parlava perché lo riteneva un fatto privato, non in quanto omicidio di mafia, certo, che in quanto tale ben sapeva essere un fatto politico e pubblico, ma in quanto l’ucciso fosse suo fratello. E per questo, del poco che ne so non parlerò neanch’io.
Donata Schiannini