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Donata risponde a Michele (e a me)

C’è una grammatica – che tutti più o meno (!) conoscono – che stabilisce come comporre le parole in frasi corrette (per quanto non garantisca il senso compiuto: io mangio il cielo, per esempio).
Ce n’è un’altra che invece compone pezzi di parola in parole accettabili (chissà se in questo caso si possa controllare meglio il senso prodotto?). Di questa seconda, però, non si trova traccia se non nel sapere delle persone come Donata.

Michele

Ma guarda che non è proprio così. Nelle grammatiche scolastiche più recenti (in quelle scientifiche già da tempo) si trova di solito un capitolo sulla formazione delle parole, che spiega questi meccanismi e ti dà così gli strumenti per giudicare se la formazione di parole nuove corrisponde alla struttura lessicale dell’italiano. Un capitolo così c’è anche in quella a cui ho collaborato qualche anno fa per Bruno Mondadori. Poi certo, ognuno deve usare la testa, perché in quel capitolo non troverà proprio la parola che cerca; ma se trova il meccanismo, è già molto.

Donata

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Immigliorabile è parasintetico

Cara Donata,

ieri ho scritto, per divertimento, sul mio blog questo messaggio:

Ieri ho letto un dialogo ma brutto, ma così brutto, ma così tanto brutto, che mi sono fatto l’idea che sia immigliorabile. Poi però mi sono chiesto se si può dire immigliorabile.
Ma, secondo voi, si può dire?.

Ne sono seguiti commenti divertiti. Ora però vorrei affrontare la questione linguistica.

Penso sia pacifico che si possa usare. Però mi piacerebbe ci regalassi qualche osservazione seria. Ti do qualche spunto: è  un caso identico a petaloso? Le parole create da un termine noto con l’aggiunta di un prefisso, hanno un particolare nome? In generale, come regolarsi quando non c’è un vocabolario ad attestarne l’uso?
In passato ci avevi parlato già di sbirritudine, ricordi? Questo è un caso analogo?

 

E sì, la situazione è analoga. Immigliorabile è uno di quegli aggettivi che in linguistica si chiamano «parasintetici», e sono quelli fatti unendo a una base un prefisso (in questo caso in– con valore negativo, che diventa im– per assimilazione alla m iniziale) e contemporaneamente un suffisso, in questi caso –abile, che di solito deriva un aggettivo da un verbo, per esempio abitabile dal verbo abitare; ma nel nostro caso il verbo non c’è, se ci fosse sarebbe immigliorare, ma appunto non c’è. Come non c’è per inabitabile il verbo inabitare. La maggior parte dei parasintetici sono verbi (imburrare e non c’è burrare, innervosire e non c’è nervosire) ma ci sono anche aggettivi, come nel nostro caso.
Conclusione: visto che la formazione di parasintetici è normale in italiano, se ne può formare uno nuovo in ogni momento e quella che si è formata è sicuramente una parola italiana.
Invece non riesco a ricordare dove posso aver scritto la storia dell’immobiliere come proprietario di una società immobiliare. Se mi viene in mente, e se la trovo, te la mando.

Donata

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Spiegazione in nero

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Ieri ho chiesto per email un parere di Donata, complice un dialogo letterario controverso rispetto alle concordanze grammaticali, chiedendo anche a voi tramite il blog come vi sareste comportati in questo frangente. Oggi mi è giunta la risposta privata di Donata che vi giro per conoscenza. Per chi si fosse perso il post di ieri, di seguito il brano oltre alla risposta che mi è stata data.

“Io, piuttosto, sono stufa delle tue bugie: sii sincero con me, una buona volta”
“Che vuoi dire?”
“Per esempio, potresti spiegarmi perché ho trovato questo nella tua giacca.”
“Quindi tutta questa discussione nasce da un misero biglietto trovato in una tasca?”
“Se nel misero biglietto c’è scritto “sei un uomo speciale, quando ci rivediamo?” e quel biglietto non l’ho scritto io, si.”
Mario aprì il frigo, si scelse una birra, lo richiuse.
“Almeno per qualcuno lo sono davvero.”
“È un’ammissione, la tua?”
“Sì, ti ho accontentato: sono stato sincero. Sei più felice, adesso?”

 

Qualcuno (è proprio il caso di dirlo) obietta che si doveva scrivere “qualcuna” anziché “qualcuno”, perché è riferito all’amante. Allo stesso modo, riferendosi alla moglie, “accontentata”. Nel primo caso la frase mi pare corretta. (E hai ragione, ma solo perché ancora non si sa, almeno in teoria, se chi ha scritto il biglietto è un uomo o una donna) Nel secondo preferisco “accontentato” – io lo scriverei così – anche se non correggerei chi lo scrivesse al femminile. (Invece in questo caso è corretto il femminile perché ti ho accontentato equivale a ho accontentato te e questo te è indubitabilmente una donna. Ma il dubbio viene proprio per questo: perché la regola è sul filo del rasoio, infatti dice che se l’oggetto del verbo è espresso prima il participio verbale concorda con questo, se è espresso dopo invece resta al maschile, genere non marcato. Infatti sopra ho scritto ho accontentato te e questo va bene anche se te è femmina, perché viene dopo; se invece veniva prima, e prima poteva venire solo nella forma ti, in quanto riferito a femmina questo ti impone la concordanza al participio. Sono le regole complicate che fanno venire i dubbi. Sul perché poi ti sia venuto questa volta e non prima, non mi posso pronunciare. Sarà psicologia, sarà che in certi momenti siamo più pignoli)

Ormai sei diventata il Salomone (la Salamona, secondo la logica grammaticale di qualcuno, [no per favore, non dire queste sciocchezze, chi vuole il femminile per le donne, tipo ministra o sindaca, lo vuole per ottime ragioni grammaticali; invece tu mi puoi dire che sono il Salomone e io ti posso dire che sei la Sibilla, ma questa è tutt’ altra cosa] niente a che vedere con il salame) delle dispute sulla lingua.

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Grammatica, tremenda grammatica

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Cara Donata, ti sottopongo un piccolo dubbio grammaticale che ha coinvolto tre blogger, uno di questi ero io, su delle concordanze all’interno di un dialogo tra due personaggi. Oltre alla soluzione che mi potrai dare, sarebbe interessante anche capire perché vengono improvvisamente questo genere di dubbi, perché mi pare che non se ne abbiano fino a un certo giorno, e poi di colpo nasce il dubbio.

Comunque questo è il contesto in cui è nata la discussione grammaticale:

“Io, piuttosto, sono stufa delle tue bugie: sii sincero con me, una buona volta”
“Che vuoi dire?”
“Per esempio, potresti spiegarmi perché ho trovato questo nella tua giacca.”
“Quindi tutta questa discussione nasce da un misero biglietto trovato in una tasca?”
“Se nel misero biglietto c’è scritto “sei un uomo speciale, quando ci rivediamo?” e quel biglietto non l’ho scritto io, si.”
Mario aprì il frigo, si scelse una birra, lo richiuse.
“Almeno per qualcuno lo sono davvero.”
“È un’ammissione, la tua?”
“Sì, ti ho accontentato: sono stato sincero. Sei più felice, adesso?”

 

Qualcuno (è proprio il caso di dirlo) obietta che si doveva scrivere «qualcuna» anziché «qualcuno», perché è riferito all’amante. Allo stesso modo, riferendosi alla moglie, «accontentata». Nel primo caso la frase mi pare corretta. Nel secondo preferisco «accontentato» – io lo scriverei così – anche se non correggerei chi lo scrivesse al femminile.

Ormai sei diventata il Salomone (la Salamona, secondo la logica grammaticale di qualcuno, niente a che vedere con il salame) delle dispute sulla lingua.

Ciao

Helgaldo

 

Post scriptum: domani la risposta di Donata. Oggi provate voi a togliermi il dubbio, poiché mi sembra che frasi simili possano apparire in ogni pagina di un romanzo, e allora meglio sapere prima come comportarsi anziché pubblicare concordanze imprecise.

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Marketing al contrario

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Ricevo da Donata e volentieri pubblico.

Il piccolo libro di grammatica che ho avuto l’onore di preparare su richiesta dell’Accademia della Crusca, per l’iniziativa in accordo con Repubblica, esce oggi per l’appunto insieme a questo quotidiano. Se sei curioso compralo, costa € 5,90, ma attenzione è comunque una grammatica, anche se un po’ diversa dalle solite, quindi non è certo un libro divertente. Te lo segnalo con la coscienza tranquilla perché non ho compenso in percentuale, quindi non guadagno un centesimo in più se lo comprano in tanti.

Donata

 

Post scriptum di Helgaldo: pochi, maledetti e subito sono i proventi editoriali odierni. Il diritto d’autore invece fa parte ormai della leggenda che si tramanda di autore in autore. Con la coscienza tranquilla estendo perciò volentieri la segnalazione di Donata a tutti quelli che amano la grammatica, o che vogliono provare ad amarla (appartengo sicuramente a questo gruppo), anche se a detta dell’autrice non è un libro divertente (marketing al contrario, questo).

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Il Tullio De Mauro di Donata

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Io con De Mauro ho avuto il privilegio di lavorare, e non due giorni. Però prima di parlare di questa esperienza devo parlare, anch’io come tutti, di un suo libro. Mi sono laureata a 23 anni in Lettere Moderne, con tesi in Storia della lingua italiana; era una materia della quale mi ero innamorata quasi per caso. Poco dopo esce un libro il cui titolo mi incuriosisce: Storia linguistica dell’Italia Unita. Avevo studiato, naturalmente, la Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini, l’unica che esistesse a quel tempo. Ma questa, già dal titolo, mi pareva una cosa diversa. E la era: non la storia di una lingua, ma la storia di un paese attraverso la sua lingua. Un libro che mi ha cambiato la testa, un libro che per fare la storia linguistica studiava, prima di tutto, l’analfabetismo e il lento e difficile procedere dell’alfabetizzazione in Italia; un libro che considerava fondamentali gli aspetti quantitativi della lingua, dei quali fino ad allora non era fregato niente a nessuno. Intanto, proprio a causa della mia laurea, mi era stato offerto un lavoro dalla casa editrice Garzanti, che stava allora cominciando a produrre un vocabolario della lingua italiana; un lavoro che ha fatto di me una lessicografa. Questo termine a dir la verità l’ho sempre usato, quando mi chiedevano “che lavoro fai?”, solo per divertirmi a vedere le facce stupite degli astanti; altrimenti dicevo “lavoro in casa editrice e mi occupo di vocabolari”.

Poi un giorno, non so come, vengo a sapere che l’autore della Storia linguistica dell’Italia Unita è un certo Tullio De Mauro e ha solo 7 anni più di me: quando il libro è uscito io ne avevo 23, lui 30. Faccio fatica a crederlo, non solo per la profondità del ragionamento, che uno molto più bravo di me può anche avere a 30 anni, ma per la quantità della documentazione sulla quale si basa quella storia, che non capisco come uno abbia potuto leggere, studiare, analizzare in così pochi anni. Allora me lo figuro come un topo di biblioteca, uno sgobbone, certo geniale, ma inevitabilmente noioso. Leggo qualche altro suo libro, e in verità noiosi non sono; ma finisce lì.

Passano molti anni, io sono sempre alla Garzanti e “il dottor Livio”, l’editore, affida a De Mauro l’incarico di impostare e produrre un grande vocabolario di concezione del tutto nuova. La redazione è a Roma, De Mauro è autorizzato a formarla con persone di sua fiducia, suoi ex allievi, in pratica; e la dirige. Passa quasi un anno, poi un giorno l’editore mi chiama e mi dice che mi vuole affidare il compito di seguire quella redazione. Salto di gioia, anche se il momento della mia vita è difficile, ho in famiglia un malato grave che può fare a meno di me, ma non a lungo. Comincio i viaggi a Roma, 3-4 giorni ogni due settimane, sempre tornando di corsa e con il cuore in gola. L’editore vuole che io gli dica come viene l’opera, ma anche che io faccia una previsione di tempi e di soldi. Gli dico che l’opera viene del tutto nuova, e bellissima; per la previsione ci metto un po’ più di tempo ma la faccio, fa parte del mio lavoro; e lui comincia a dire che è troppo. Livio Garzanti era uno che si innamorava di autori, di collaboratori, poi gli passava e cominciava a detestarli. Con De Mauro stava andando così, e la mia previsione era poco più di una scusa per levargli l’incarico. Io ho fatto di tutto per evitarlo, ma era impossibile. De Mauro aveva chiesto più di una volta a Garzanti di fare dei conti di tempo e di denaro, perché questo era compito della casa editrice, dell’industria che gli aveva commissionato il lavoro approvando i criteri con cui lui intendeva farlo. Ma Garzanti solo allora si era deciso a farli fare, quei conti. E proprio a me.

Però un po’ di tempo era passato durante il quale io avevo lavorato con la redazione e con Tullio: si discuteva di come fare alcune cose, di come scrivere, di quanto tempo ci volesse per ogni operazione fatta bene. E lì io scoprivo man mano un uomo speciale, piccolino e con le orecchie a sventola, grande conoscitore delle cose di cui parlava, affascinante quando le diceva, ma anche spiritoso, uno a cui la battuta veniva fuori da sola, divertentissima ed elegante. A casa, quando partivo per Roma, dicevo che andavo “dal mio topino” e ho ancora un topino di lego, rosso con grandi orecchie gialle, che mio figlio mi aveva regalato in suo onore.

Erano i primissimi tempi dell’informatica e con me venivano spesso a Roma dei programmatori e anche il direttore del centro elettronico della casa editrice, il mio amico Annino Stoppa. Allora ctrl era una parola magica, rappresentava gli automatismi che facilitavano il lavoro dei redattori e loro ne chiedevano continuamente di nuovi, finché un giorno De Mauro se ne viene fuori con “Così anche noi potremo dire: ho fatto il vocabolario con Control”. In quei giorni Roma era tappezzata di manifesti che dicevano “Ho fatto l’amore con Control”, che era una marca di preservativi.

Quanto io abbia imparato da lui non riesco a raccontarlo. E non solo sul piano linguistico e culturale, anche per la dignità e la correttezza. Quando Garzanti gli disse, con tono di rimprovero, che la sua opera avrebbe richiesto troppo tempo e troppo denaro, lui rispose, serafico e ironico, di essere soltanto “un intellettuale della Magna Grecia” a cui toccava stabilire i criteri e i requisiti scientifici dell’opera, mentre fare i conti economici toccava all’imprenditore del Nord. Se ne andò senza sbattere la porta e senza portar via nemmeno un campione del lavoro che era stato fatto, senza copiare su un dischetto né una voce scritta, né il fascicolo delle regole redazionali. Né mai pensò di farmi una colpa per aver fatto quei conti, sapeva che erano parte del mio lavoro.

La fine di quella collaborazione è stata la causa non ultima della mia decisione di lasciare la casa editrice nella quale avevo lavorato 27 anni; cosa che ho fatto poco dopo. De Mauro non me l’aveva chiesto, ma senza che lui lo sapesse ho cercato un altro editore che volesse riprendere il suo progetto; ho provato con Rizzoli, con cui avevo buoni contatti, ma non andò bene; indirettamente feci sapere la cosa a Utet, e lì il lavoro ripartì, ma senza di me, che lavoravo altrove. Il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (in gergo lo chiamiamo Gradit) è uscito in 6 volumi per Utet nel 1999, una decina d’anni dopo la disavventura garzantiana. Nel frattempo la Utet, per anticipare il rientro economico, aveva ottenuto da De Mauro di far uscire per Paravia una versione monovolume che poteva andar bene per le scuole, ma i nostri insegnanti, mi duole dirlo, si spaventarono della novità e continuarono a consigliare quei dizionari che un po’ si assomigliano tutti, dallo Zingarelli al Devoto-Oli, compreso il mio caro Garzanti. Uscirono tra il 1996 e ’97, sempre per Paravia, anche il Dib (Dizionario italiano di base) e il Daic (Dizionario avanzato dell’italiano contemporaneo), opere importantissime ma anch’esse meno fortunate di quanto meritassero; almeno però, a differenza del monovolume Paravia, ancora oggi in commercio. Un’altra rivincita del mio caro topino è che ormai anche i dizionari scolastici, praticamente tutti, segnalano in qualche modo le parole che ritengono far parte del “dizionario di base”, quello che, come proprio lui aveva dimostrato, coprono intorno al 98% di qualsiasi testo o discorso italiano possiamo incontrare nella nostra vita. Un fatto, questo, che ancora, quando lo racconto agli allievi del master in editoria nel quale insegno, li stupisce, perché in tanti anni di studi più o meno umanistici nessuno glielo ha mai raccontato. E io allora gli consiglio La fabbrica delle parole, un libro uscito per Utet nel 2005 che altro non è se non l’introduzione al Gradit: l’unica introduzione a un vocabolario che abbia meritato di diventare un libro a sé, e che libro!

A parte i libri, però, io De Mauro non l’ho mai mollato. Ogni volta che ho potuto ho partecipato, nel pubblico, a conferenze, convegni, riunioni dove lui fosse relatore: oltre alle sue relazioni mi piacevano da matti le domande che faceva agli altri, sempre profonde, spesso sornione. L’ultima occasione che ricordo era qui a Milano, all’Università Bicocca, e lui discuteva con neurologi, studiosi di preistoria, biologi, oltre che linguisti, su un tema da niente come l’origine del linguaggio umano. In tutti questi casi c’era tra noi due una piccola cerimonia: alla fine, o a un certo punto se la cosa era lunga, lui si allontanava e infilava una qualche porticina che portava all’esterno; io lo seguivo e quasi insieme ci accendevamo la sigaretta. Sì, perché lui era tossico, come me. Lì ci salutavamo, spesso con un abbraccio: io gli ho detto fin dalla prima volta che quel tipo di spazio lo chiamavo “l’angolo del tossico” e lui aveva accettato quel nome con uno dei suoi sorrisi ironici.

Ironico, spiritoso, ma nella sua vita c’era un grande peso, del quale però non parlava mai: il rapimento da parte della mafia di suo fratello Mauro, giornalista de “L’ora” di Palermo, mai più ritrovato vivo e neppure morto. Non ne parlava perché lo riteneva un fatto privato, non in quanto omicidio di mafia, certo, che in quanto tale ben sapeva essere un fatto politico e pubblico, ma in quanto l’ucciso fosse suo fratello. E per questo, del poco che ne so non parlerò neanch’io.

 

Donata Schiannini

 

 

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«Gli» o «le»? Com’è andata a finire

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Nel post di ieri abbiamo discusso un mio dubbio grammaticale: se fosse corretto usare gli al posto di le in una frase del mio post dell’altro ieri. Chi si fosse perso le puntate precedenti può quindi retrocedere di un post, eventualmente due, e tornare poi in questa pagina per scoprire com’è andata a finire.

Non è bastato chiedere in giro ad altri blogger. La divergenza di opinioni che si è generata mi ha convinto a spedire il mio dubbio via mail a due lessicografe che ho la fortuna di conoscere. Fortuna tutta mia, sciagura tutta loro, perché ogni volta che mi sorge un dubbio di grammatica – e accade spesso – le poverine vengono inondate di questioni linguistiche da terza elementare.

La mail che ho inviato separatamente a entrambe portava un titolo emblematico: Dubbio grammaticale atroce, il che la dice lunga sul mio stato psicofisico generato dai pronomi personali.

Questa la domanda per entrambe:

 

Cara Donata/Elisa (si chiamano così le lessicografe, ndr),
sono ignorante. Specie in grammatica. Perciò vado a orecchio sperando che dio me la mandi buona. Oggi ho scritto questo:

«Ma all’una di notte precisa, tutte le sante notti, chiama sempre la stessa persona. E vuole che gli venga raccontata sempre la stessa favola, La principessa in fondo al mare».

Che gli venga o che le venga? L’ho cambiato quattro volte, ora non ci capisco più niente. Devo concordarlo con «persona», quindi al femminile o con colui che chiama tutte le sante notti, che essendo un uomo abbisogna del «gli»?

Aiuto, prego…

 

Passa qualche ora e mi arrivano le risposte.

 

Caro Helgaldo (non mi chiamano così, ma ci siamo capiti, ndr),
io come sai sono quella del «va sempre bene tutto».
In questo caso vanno bene entrambe le soluzioni: le concorda sintatticamente, gli concorda a senso. Per me meglio gli, perché la persona che parla sa bene che la persona è un uomo, e quindi è molto più naturale concordare al maschile. Ti convinco?
Ciao,
Elisa

 

Sì, mi convinci. Leggiamo ora quella di Donata.

 

Allora, la concordanza grammaticale vuole le, femminile, a causa di persona. La grammatica italiana ammette in certi casi anche la concordanza «a senso», quindi andrebbe bene gli perché è un uomo, il problema però è che questo lo sai solo tu, chi legge ancora non lo sa; e finché non glielo fai sapere si aspetta la concordanza grammaticale e ha ragione di aspettarsela. Non è poi così difficile, vedi. Ma tranquillo, sono dubbi che vengono a tutti. A proposito, stanno uscendo ogni venerdì con Repubblica i piccoli libri di italiano dell’Accademia della Crusca, uno dei quali l’ho scritto io, ma uscirà solo in gennaio. Io li compro tutti, per € 5,90 cad, e dei tre finora usciti uno non mi è piaciuto, uno mi è piaciuto molto e il terzo, che è in edicola questa settimana, mi piace molto per l’argomento ma ancora non l’ho potuto leggere per capire se mi piace come è fatto. Io però se fossi in te lo comprerei, perché il tema è interessante e potrebbe servirti. Se lo compri e lo leggi, mi dici che effetto ti fa (l’autore è l’attuale presidente della Crusca). Coraggio, ciao.
Donata

 

Per fugare ogni ombra di dubbio dalla risposta di Donata, invio allora ad entrambe tutto il brano, per essere sicuro di dar loro tutte le coordinate giuste per rispondere. Da come parla Donata, infatti, mi pare non abbia compreso che la persona di cui si parla è già nota. Ed ecco le rispettive repliche.

 

Sì, lo confermo. Si tratta di un uomo (e lo sa non solo il narratore, ma anche il lettore) e quindi la concordanza a senso secondo me è più naturale. (L’altra non è comunque sbagliata).
Ciao,
Elisa

 

Sì certo, così le cose cambiano: che è un uomo lo sa il lettore, e anche l’operatrice telefonica. Allora la concordanza a senso, al maschile, è legittima; ma naturalmente resta legittima anche quella grammaticale, al femminile. Io sono sempre molto contenta quando riesco a spiegare a qualcuno che se esistono due diverse espressioni non è detto che una delle due debba essere sbagliata, ma abbiamo libertà di scelta. La lingua, anzi tutte le lingue, lasciano spesso spazi di libertà, ed è anche per questo che le amiamo. No, questo non è vero, purtroppo molti le amano perché sono convinti che abbiano leggi ferree, naturalmente quelle che piacciono a loro.
Nel frattempo ho finito di leggere il terzo libro di Repubblica/Crusca. Parla poco di lingua italiana e molto di internet… Il prossimo, in edicola da venerdì prossimo, parlerà di «sindaca» e affini; lo aspetto con ansia.
Ciao
Donata

 

Riassumendo, quindi, abbiamo ragione tutti. Perciò il mio onore di blogger è salvo, e pure il vostro di scrittori. Non è bellissimo?

Diffidate invece di quelli che in grammatica sono per le leggi ferree.

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La Crusca e l’arciconsola

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Se c’è stato qualcosa di buono nell’esplosione virale di petaloso (ormai fastidiosa proprio quanto una malattia virale) è che tanta gente che non ne aveva la benché minima idea ha scoperto che esiste l’Accademia della Crusca, e che non è fatta di parrucconi che dicono no a qualsiasi cambiamento linguistico, ma di gente che sa di storia della lingua e di linguistica in generale e che, se le si chiede un parere, te lo dà serio e (quasi sempre) ragionevole.

Certo, vecchia è vecchia, l’accademia; nata a Firenze nel 1582, per un bel po’ di tempo fu popolata davvero di parrucconi, seri e studiosi, ma convinti che la lingua non dovesse allontanarsi di un centimetro dai grandi modelli del Trecento fiorentino e toscano: Dante, Petrarca, Boccaccio. Non a caso scelsero come motto un verso di Petrarca, il più bel fior ne coglie, per significare che il loro compito era di scegliere il fior di farina buttando via lo scarto, la crusca (non erano ancora diventati di moda i cibi integrali).

Non erano passati neanche tanti anni dalla fondazione quando l’accademia pubblicò, nel 1612, un’opera monumentale, il primo vocabolario storico della lingua italiana; che però, curiosamente, non si chiamava così, ma semplicemente Vocabolario degli Accademici della Crusca. Sì, nel primo e più famoso vocabolario della lingua italiana la parola italiano non è nel titolo e non c’è neanche come lemma, cioè come parola da poter cercare all’interno. Curioso, ma spiegabile: il titolo all’origine doveva essere Vocabolario della lingua toscana, perché quegli studiosi pensavano che fosse la lingua toscana l’unica degna di diventare lingua di tutta l’Italia; ma non si sognavano certo di pensare che l’avrebbero potuta parlare gli italiani di tutte le regioni, sapevano benissimo che i popoli delle regioni avrebbero continuato a parlare i loro dialetti, e quel toscano speravano di imporlo a tutti soltanto come lingua letteraria. Lo speravano, ma temevano che la parola toscana potesse suscitare proteste da parte dei letterati di altre regioni, così dopo due anni di discussioni il titolo cambiò, e il risultato se ci pensi è abbastanza strano, perché di solito il nome di una lingua compare chiaramente nel titolo di qualsiasi vocabolario.

Ma torniamo all’Accademia della Crusca; il suo presidente, dall’inizio fino al 1915, si chiamava arciconsolo, ma ai primi del Novecento quel titolo dovette sembrare ridicolo e perciò lo cambiarono in presidente, appunto. Quando nel 2008 Nicoletta Maraschio diventò presidente – ed era la prima donna a diventarlo – spiegò, correttamente, che non dovevano chiamarla il presidente, ma la presidente; e si divertì anche a spiegare che, se il titolo non fosse stato cambiato da quasi un secolo, avrebbero dovuto chiamarla arciconsola.

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La passione per i divieti

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Cui

Questo pronome relativo deriva pari pari dal latino cui, che significa «al quale». E così c’è qualcuno che dice che in italiano non ci puoi mettere davanti la preposizione a, perché già la contiene nel suo significato; quindi non puoi dire la persona a cui mi sono rivolta, perché sarebbe come dire *la persona a alla quale mi sono rivolta, ma devi dire la persona cui mi sono rivolta. È proprio vero che la passione per i divieti porta alle affermazioni più assurde. Il pronome cui conteneva il significato della preposizione a in latino, ma noi mica parliamo in latino, parliamo in italiano. E infatti diciamo di cui, da cui, in cui, su cui, per cui, mettendo davanti a cui tutte le preposizioni possibili e immaginabili, e a nessuno viene in mente che sarebbe come dire *a del quale, *a dal quale, *a nel quale ecc. Per fortuna la passione per il divieto non è ancora arrivata a tanto.

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Perché una daina sì e un aquilo no

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Adesso voglio parlarti brevemente dei nomi di animali: anche qui, come per i nomi di persona, la lingua italiana ha il maschile e il femminile, ma tradizionalmente sono usati solo per i nomi di animali domestici o anche per quelli selvatici, ma molto famosi: il cane/la cagna, il cavallo /la cavalla, il leone/la leonessa. Per gli altri animali, che sono la maggioranza, si usa di solito un solo genere grammaticale che può essere maschile (daino, corvo) o femminile (lepre, aquila) e si usa per i due sessi, precisando, se occorre, un daino femmina, un’aquila maschio. Anche in questo caso, però, non lasciarti togliere la tua libertà: la lingua ti mette a disposizione una struttura grammaticale e se vuoi puoi usarla, e puoi dire una daina, una corva; forme così si trovano a volte nelle favole per i bambini, perché dire mamma daino a un bambino può confondere le idee, invece mamma daina è chiarissimo, per il bimbo che legge e anche… per il cucciolo di mamma daina, che magari sarà un dainino. Però attenzione, non puoi fare il contrario, non puoi dire un lepro o un aquilo, se non per scherzare (per scherzo ho sentito usare anche mammo!), perché la lingua italiana deriva il femminile dal maschile e non viceversa: è fatta così e non possiamo farci niente.

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