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Dove si parla di social network e di comunicazione 2.0

Wilde 2.0

«Quando mi si dà ragione ho sempre la sensazione che devo essermi sbagliato».

Oscar Wilde

 

Caro Oscar, sono perfettamente d’accordo con te. Gran bel blog il tuo!

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Di matti e di plagi

Sembra che qualcuno copi spudoratamente dai blog di scrittura, elargendo consigli agli aspiranti romanzieri, ma citando senza virgolette e fonti le parole d’altri; e non abbia neppure il pudore di coprire i propri misfatti travestendoli o camuffandoli con parole proprie.

In queste ore alcuni blogger – se ho capito bene quattro – sono stati copiati e incollati da un unico soggetto, che ne ha sfruttato pensieri, opere, soprattutto omissioni, per sua colpa sua grandissima colpa, rendendosi bello agli occhi dei propri utenti nonché aspiranti scrittori, forse per strappar loro qualche euro futuro con un servizio di editing ad hoc.

Come andrà a concludersi questo plagio non si sa. Nel frattempo mi sono chiesto cosa potrei dire di originale su questa faccenda del copia-incolla, qualcosa che nessuno si sia ancora immaginato di dire, una riflessione nuova, autentica, sorprendente.

Da principio non mi veniva niente, allora ho vagato per la rete in cerca di spunti, magari da trascrivere senza virgolette, spacciandoli per miei. Nulla, non ho trovato nulla degno di plagio. Qui si mette male – ho pensato – che post senza qualità è mai questo?

Poi mi sono ricordato di Jimmy Carter, quello delle noccioline presidente Usa negli anni 80, Nobel per la pace – lo sapevate? –, mi sono ricordato che correva in pantaloncini corti nei giardini della Casa Bianca e questo fatto, che un uomo celebre facesse footing in mutande aveva destato un grande interesse nell’opinione pubblica mondiale e sui media.

E poi mi è venuto alla mente che anche Mark Zuckerberg l’ultima volta che è stato a Roma, anche lui uomo celebre quanto un presidente americano, e forse diventerà il prossimo presidente americano dopo Trump, se dopo Trump ci sarà un futuro, insomma mi ricordo che pure lui si è fatto fotografare mentre correva in mutande intorno al Colosseo. E aveva un sorriso di plastica, proprio come quello di Carter in mutande alla Casa Bianca. E questo è sicuramente un plagio.

Direte che sono andato fuori tema. Infatti, proprio così, l’ho fatto deliberatamente. Chi è quel matto che copincollerebbe uno che va fuori tema?

Per questo non mi copiano, un matto è originale autentico.

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Il matto successivo

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Il vero post è il post scriptum.

Grilloz

 

Post scriptum: Matto geniale, questo. Mi ha imbrattato il muro con un pensiero interessante. Ovviamente lui non n’è cosciente: genialità e mattitudine si incrociano per caso e guardandosi negli occhi non si riconoscono.

È vero, ha proprio ragione Grilloz, la materia viva di un blog non è il post, ma quello che viene scritto dopo. Il vero post sta nel dopo post, nelle reazioni che è in grado di suscitare, altrimenti è un soliloquio, solo un matto che parla con se stesso.

La sua frase sul muro mi ha fatto venire in mente altri matti, quelli che da cinque o sette anni scrivono regolarmente un post a settimana e quando scorro i post trovo nessun commento, nessun commento, un commento, due commenti, nessun commento. Eppure settimana prossima pubblicheranno un altro post. Robe da matti.

E poi ci sono quelli che hanno scritto un libro e l’hanno letto in dieci. Così ne scrivono un secondo e i lettori sono diventati 15. Allora saltano di gioia e scrivono il libro successivo con la motivazione che l’incremento è stato del 50 per cento. E questo mi ricorda quel matto che caduto dall’ottavo piano giunto al primo dice che per ora va tutto bene.

La Scuola Santa Rosa è una piccola struttura che può seguire solo pochi matti. Però so che c’è Amazon, una struttura immensa che accoglie tutti i matti e possono scrivere sui muri tutto quello che gli passa per la testa e non c’è nessun infermiere che controlla. Un mondo di matti liberi di stare dentro.

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Essere Alessio Montagner

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Molti di voi già lo sapranno per averlo letto direttamente o per averlo sentito dire dai giornali: l’altro giorno Umberto Eco si è espresso per il Sì al referendum motivando la sua decisione in 7 punti dal blog di tg24 live. Il sesto punto delle sue motivazioni, riportato anche nel titolo dell’articolo, sostiene piuttosto perentoriamente che chi voterà No è un imbecille e i grillini sono una legione di imbecilli.

Immediatamente si è scatenata la rivolta in rete. Insulti di ogni tipo sono piovuti addosso al semiologo, che già in precedenza si era espresso in maniera molto critica sui frequentatori della Rete. Se i primi commenti si limitavano a un vai a lavorare, con il passare dei minuti se ne sono aggiunti di sempre più violenti, arrivando perfino alla bestemmia. A dispetto di qualcuno più edulcorato, che ha ribattuto puntigliosamente punto per punto al professore, la maggior parte ha dichiarato che non leggerà più le sue opere, che egli si dimostra essere nient’altro che il servo di Renzi, e c’è chi ha persino ironizzato sulla sua corporatura flaccida che appare nella foto a corredo dell’articolo, dove il professore indossa una maglietta con uno slogan a favore del Sì.

Scorrendo il profluvio di insulti pesanti, al limite del penale, scorgo anche un breve commento di Alessio Montagner, uno che considero della mia cerchia. Montagner confessa il suo disagio: gli sembra di essere stato catapultato in un universo parallelo, dove la realtà è sovvertita. Non sa più se è lui l’ubriaco oppure se si trova nel ruolo della vittima di un gigantesco Scherzi a parte, dove tutti si sono messi d’accordo per recitare come comparse di quelli che ignorano che Eco non è più tra noi già da otto mesi.

Ecco, in quel momento mi sono sentito Alessio Montagner. Al di là della facile ironia, del webeti di Mentana, delle parole dure espresse non troppo tempo fa da Eco stesso sul livello intellettivo delle discussioni social, provo lo stesso straniamento di Montagner. La bufala, ben congegnata, mostrava evidenti tracce per dissolversi al sole. Sotto un titolo strillato campeggiava la foto di un militante del Sì dai tratti somatici solo vagamente riconducibili a Eco; il famoso punto 6 incriminato parlava di grullini, e non di grillini, come poi si è puntualmente verificato; una motivazione articolata del professore si concludeva con un «tiè!» dell’avambraccio. Il punto 7 dichiarava che l’estensore dell’articolo ha le corna lunghe; il fantomatico tg24 live ricorda solo da lontano Tg Sky 24. Eppure…

Eppure schiere di persone hanno dato credito alla forma e non hanno saputo decodificare la sostanza. Sospinti dall’odio, a nulla sono valsi gli appelli di vari Montagner a consultare Wikipedia per rendersi conto dell’inganno. Dovrei consolarmi di essere anch’io un Montagner, possedere cioè gli strumenti critici che mi permettono di discernere il vero dal falso. In questo caso non sono caduto nella Rete, era facile sfuggire alla bufala. Già, ma fino a quando?

Quelli della mia cerchia, come li definisco io, non ci sarebbero cascati, ne sono sicuro. Ma gli strumenti critici che possediamo sono assoluti? Ci garantiranno di smascherare altre bufale, altri inganni, meno appariscenti e meglio congegnati? Qua e là già sento i primi cedimenti del terreno, anche nelle cose nostre legate ai libri, alla scrittura. Una certa trascuratezza nei contenuti, l’incapacità crescente di distinguere un testo valido da un altro semplicemente corretto nella grammatica ma censurabile nella sostanza. Giudizi trancianti sulla letteratura ufficiale in base a una vaga democrazia indie preconfezionata da Amazon. Tendenze limitate, per ora, ma che aprono autostrade di autoincensamento che fanno della mediocrità e della non competenza un obiettivo ormai alla portata di tutti. Manganelli era un assiduo lettore di voci enciclopediche e da quella prosa scarna attingeva la sua prosa. Ora si consulta Wikipedia, la nuova Bibbia online, e non si sa più valutare il grado di autorevolezza di una fonte. Auguro a tutti di essere Alessio Montagner. Ma fino a quando saremo in grado di evitare le maglie della Rete?

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Di poesia e video hard

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Una 31enne l’altro ieri si è suicidata perché non reggeva più all’idea di essere derisa sui social per un video hard che la vedeva protagonista più di un anno fa, e condiviso incautamente con cinque «amici» per motivi personali, uno dei quali ha però pensato di rilanciarlo in rete, rendendolo virale in pochi giorni. Da allora, una ragazza anonima si è trovata al centro dei social e della notizia e tutti i tentativi che ha fatto anche a livello legale per rimuovere la sua immagine e il suo nome da internet non sono bastati. Ha dovuto prima cambiare città e poi identità per non essere riconosciuta. La sua fama però l’ha braccata ovunque, neanche fosse Belen in persona. Qualcuno aveva persino ipotizzato che fosse un lancio mediatico di una nuova pornostar. Purtroppo si trattava invece solo di un atto giovanile, incauto ma innocuo, di una ragazza come tante che non è riuscita a sottrarsi a una fama involontaria, fama che l’ha infine distrutta sotto il peso del meccanismo social che una volta creato è inarrestabile. Anche la notizia della sua morte non ha interrotto l’ironia e le parodie in qualche parte della rete dove la compassione ha lasciato da tempo il posto alla crudeltà.
C’è da chiedersi se la rete non sia maschilista e violenta, e nient’altro.

Sempre l’altro ieri sulle colonne di Repubblica Natalia Aspesi denunciava la violenza verbale che ha subito nei giorni scorsi sui social per avere scritto «incautamente» che non ha mai letto la poesia A Zacinto di Ugo Foscolo. I foscoliani si sono subito scatenati verbalmente in tutto il loro splendore contro la scrittrice coprendola di insulti.
Ieri è intervenuto, sempre su Repubblica, uno dei più famosi studiosi del poeta di Zante, per giustificare l’ovvio: non si può leggere tutto ciò che è stato scritto e questo non dà il diritto di attaccare con violenza chi non conosce una singola poesia, e non è comunque reo di nulla. Sarebbe stato forse più efficace limitarsi all’ultima esternazione di Umberto Eco, la rete è il luogo dell’imbecillità, che sintetizza il concetto senza bisogno di sofisticate difese d’ufficio che scateneranno altre pagine web. Non credo comunque che l’Aspesi non sappia difendersi da sola dalla gogna dei social. Anche qui c’è da chiedersi se la rete non sia maschilista e violenta, e nient’altro.

Se chi legge la poesia e chi guarda i video hard agisce poi nello stesso modo sui social, con violenza e intransigenza, mi domando dove stia mai la superiorità culturale che dovrebbe nascere dagli amati libri. Credo che le due notizie social dell’altro ieri si tocchino. Quelli anti Aspesi, scrittrice e giornalista nota e che sa difendersi, sono gli stessi anti 31enne, ragazza anonima e che non può difendersi. Poesia e video hard a braccetto. Alto e basso insieme. Sempre e comunque al ribasso social.

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Chiuso per ferie, Stephen King no

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Il blog chiude per ferie, riaprirà il 29 di agosto. Il primo di settembre, il cinque di settembre. Forse non riaprirà.

Negli ultimi giorni di luglio nei vari blog di scrittura c’è stato un susseguirsi di copia e incolla da blog a blog per annunciare la chiusura vacanziera, stesso genere di testi, copincollati a partire dal primo che ha avuto l’idea, con leggere variazioni sulla data per non essere tacciati di plagio.

Bravissimi, e bellissime anche le motivazioni. Sarò scollegato; non porto il pc in vacanza; tanto non viene nessuno; calo fisiologico delle visite; devo ricaricare le pile; devo ripensare la grafica del blog; devo ripensare la filosofia del blog; devo ripensare se tenere ancora il blog; devo ripensare se rifidanzarmi con la sfidanzata; da ultimo, perché devo tenere aperto il blog pure in agosto quand’anche il parlamento è chiuso per ferie?

Mi immagino Saviano dire al suo editore che ad agosto non scriverà nulla sulla criminalità organizzata, tutti al mare perché anche la criminalità organizzata chiude per ferie. Amazon stesso, si sa, in agosto non consegna i vostri libri in self-publishing, per questo non vendete copie in agosto: in agosto non si legge, né al mare né al lago né in montagna. Tutti a guardare il sole che tramonta all’orizzonte e le ragazze che passeggiano in bikini sul bagnasciuga. Anche all’estero il libro non prende, inutile portarselo in valigia.

Il tema più frequente per l’inattività è il ripensamento. Tutti gli anni, chissà perché, ad agosto si ripensa. Si ripensa al romanzo in perenne gestazione, al sito in continua costruzione, al blog in eterno affaticamento. Le soluzione prospettate a settembre dell’anno scorso, dopo le riflessioni agostane sono state: passo da cinque a tre post a settimana; da tre a due; da due a uno. Quest’anno prevedo invece che a settembre verrà proclamato un aumento, un’inversione di tendenza. Da uno a settimana a due al mese; da due al mese a quattro all’anno. Staremo a vedere. E poi pare incomprensibile che ci sia un calo nelle visite – i commenti stanno già in vacanza da anni –. A me invece non stupisce.

A pensarci bene ad agosto hai molto più tempo per scrivere. Ma il blogger-scrittore vive al contrario. Per undici mesi si affanna di scrittura rubando tempo al lavoro, alla famiglia, allo sport, all’amante (per chi ha l’amante, ovviamente). Ad agosto quando tutte queste attività languono, si diradano, anche l’amante non è così focoso/a e il tempo per scrivere senza stress e orologi puntati ci sarebbe, che si fa? Ovviamente si smette di produrre post, di parlare con i lettori proprio nel momento in cui avrebbero più tempo per stare insieme a te dai vari luoghi di villeggiatura, anche solo per mezzora al giorno.

Forse tra i consigli di marketing per scrittori n’è stato aggiunto un ultimo a mia insaputa – io non l’ho letto da nessuna parte –: quello di sparire per un mese (mi si nota di più se chiudo il blog per ferie o se lo chiudo annunciando che chiudo il blog per ferie?). Sarà questa la strategia vincente che porta nuovi lettori, specialmente in un mese dove si naviga in rete anche in cerca di novità, e stimoli interessanti.

L’anno scorso mi sono inventato il «Diario di una vacanza». È stato divertente e qualche nuovo lettore ha scoperto Da dove sto scrivendo. Per rispetto dei lettori bisognerebbe garantire almeno un minimo di presenza social, ma si sa i lettori esistono solo quando piace a noi, in uno scambio reciproco dove scegliamo solo noi tempi e modi. Vorrei che vi dicessero sai, noi andremo in ferie in settembre, ti leggeremo poi a ottobre. Perciò anche quest’anno come l’anno scorso felici, contenti e chiusi per ferie. Che poi tenere un blog è lavorare?

Voi chiudete, Stephen King non chiude. Lui scrive per i suoi lettori anche ad agosto. Poi vai a raccontare sul tuo blog che ciò che conta è «la cassetta per gli attrezzi».

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Dadada

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Eh no, questa non la mando giù. La storia della password, intendo. 1234, abcd non vanno bene. La password perfetta, quella inviolabile dagli hacker, dev’essere costituita da valori alfanumerici, maiuscole e minuscole, con l’aggiunta di particolari segni grafici, abbastanza lunga e astrusa affinché te la possa dimenticare facilmente, così anche l’hacker non può farci niente. Che fai allora, te la segni sull’agendina, così il pirata informatico te la deve sfilare nella ressa dell’autobus per violare i tuoi dati sensibili. Sensibili poi a cosa non si sa.

Ricapitoliamo: aKer7da@bi&c non è facile da scoprire. Però quando ne ho tre di così fatte ho già piena la mia memoria interna, quella nella scatola cranica: se voglio ricordare anche il mio numero di telefono devo gioco forza eliminarne una. Ma l’esperto informatico dice di pensarne di difficili, per proteggere la tua sicurezza e la tua privacy. Addirittura non ti dà l’accesso se torni a 1234. Quanto meno ti metterà in ridicolo. Vorresti usare 1234? Sei un cazzone, non vedi quanto è infantile questa password: cambiala!

E allora tu che fai? Ti fidi e la cambi. E poi oggi apro il giornale e scopro che gli hacker hanno violato la password di Zuckerberg. No, dico: Zu-cker-berg!

Che password aveva usato? Dadada

Eh no, questa non la mando giù.

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Un mi piace perché

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1. Sono d’accordo con te.
2. Sono completamente d’accordo con te.
3. Sono d’accordo su un unico punto.
4. Non sono per nulla d’accordo, ma è scritto bene.
5. Sono d’accordo su tutto anche se è scritto da cani.
6. Non sono per nulla d’accordo, ma mi piace la provocazione.
7. È un post provocatorio.
8. È un mi piace provocatorio.
9. È un post originale, mai letta una cosa simile.
10. Gli metto un mi piace perché è un amico.
11. È l’amico di un amico.
12. Lo metto per diventare tuo amico.
13. Lo metto perché tu divenga mio amico.
14. Mi piace che i miei amici hanno messo mi piace.
15. Ti devo un mi piace.
16. Mi devi un mi piace.
17. Che triste, non c’è neanche un mi piace.
18. Ti metto un mi piace perché non ho tempo di commentare.
19. Lo metto come promemoria, torno più tardi per commentare.
20. Non ho nulla da aggiungere.
21. Sono capitato qui per caso, è un segno del mio passaggio.
22. È un segno di stima.
23. È un segno di incoraggiamento.
24. È un segno di segni.
25. Se non ci si piace tra blogger…

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Uno non vale uno

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«I network davvero aperti ormai appartengono al passato. Oggi le grandi società di Internet si comportano come i colossi dei media, con strategie condizionate dall’esigenza di monetizzazione. Youtube nasce come piattaforma di contenuti generati dagli utenti, ma adesso fugge da quel modello, pagando i propri creatori “preferiti” allo scopo di generare un ambiente sicuro per gli investitori pubblicitari».

Patrick Ruffini

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Storia di una parola non infame

foto_innaffiatoio

Sabato sera Massimo Gramellini concludeva «Che tempo che fa», la famosa trasmissione di Fabio Fazio, con un commento sulla parola più gettonata della settimana: quel petaloso di cui vi ho parlato qualche giorno fa.
Non vi ripeterò le questioni linguistiche legate a quel termine, ma voglio invece ragionare insieme con voi riguardo a un altro aspetto della questione. Se Gramellini è quasi obbligato a trattare questo argomento, è perché questo argomento ha tenuto banco sui social per tutta la settimana, raggiungendo un alto indice di popolarità e diffusione.
Da qualche commento che mi è giunto sul blog vengo inoltre a sapere che anche i telegiornali nazionali hanno dato spazio alla questione, o favola che dir si voglia, e parlandone l’hanno rilanciata ulteriormente.

Da parte mia ho notato i molti interventi ironici in rete, con finte pubblicità che mettevano alla berlina petaloso, alcune simpatiche, altre un po’ maliziose. Da ultimo Michele Serra confidava con orgoglio, e un pizzico di rabbia, che il primo a usare quel termine è stato lui riferendosi a una vecchia edizione del festival di Sanremo – lo spessore intellettuale di Serra è indiscutibile –; ma l’intervento maggiormente significativo, a mio giudizio, l’ho rintracciato nelle pagine web del Giornale, dove ci fanno sapere che petaloso è stato usato centinaia di anni fa in un trattato di botanica, e quindi il bambino che l’ha coniato potrebbe essere tecnicamente accusato di plagio, e speriamo non finisca in carcere per questo. Nell’occhio del ciclone poi l’Accademia della Crusca, che d’ora in avanti sarà prudente nell’incoraggiare i piccoli italiani alla creatività linguistica.

Che strano, però. Non abbiamo un calciatore famoso che distrugge una Ferrari in autostrada, né l’extracomunitario che con l’accetta se ne va in giro per la città spaccando teste come meloni, né l’ultima vicenda amorosa della soubrette di turno, né il solito politico nostrano beccato con la tangente nel congelatore. Nel fatto petaloso non c’è niente di pubblico, manca il vip da mettere sotto i riflettori. C’è solo un bambino di sette anni, una scolaresca, una maestra elementare e una risposta per lettera inviata dalla Crusca ai protagonisti di una domanda squisitamente scolastica. Un fatto tutto privato. Eppure in ventiquattr’ore petaloso è diventato celebre dal nord al sud della penisola. Forse ha varcato addirittura i confini nazionali.

Ma chi è che ha diffuso l’esistenza di questo fatto? Chi ha innescato il virus mediatico, che con la stessa velocità di propagazione probabilmente si contrarrà nel nulla? Come e chi agisce in questi casi nei social media per dare tanto risalto a un fatto privato, di cui agli italiani in apparenza non gliene importa niente? Chi è il «colpevole» di tanta popolarità, colui che sa tirare i fili di questa trama linguistica?

Il mio blog, completamente sconosciuto, cresce alla velocità dello zero virgola; il vostro libro in self, siete autori senza padrini, vende poche copie all’anno; le vostre opinioni, giuste o bizzarre che siano, raggiungono sì e no pochi affezionati lettori, che non hanno l’obiettivo di diffonderle con il passaparola. Il piccolo Matteo, che spero non sappia nulla di marketing, invece è diventato famoso, criticato, esaltato, contro la sua stessa volontà. Non ci credo che petaloso buchi spontaneamente i social in poche ore, se non ha dietro qualcuno che voglia far crescere questa notizia.

Alessandro Manzoni nei Promessi sposi – e più diffusamente nella Colonna infame – ci narra l’origine e la propagazione della peste bubbonica. E questo virus comunicativo, da chi origina? Su che canali ha navigato fino a straripare sullo schermo del nostro computer? Ci sarebbe da ipotizzare un complotto se non ci fosse dietro la normalità. Oppure anche la normalità non è più tale nell’epoca dei social? E in questo caso chi decide di rendere social la normalità?

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