«C’ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pit, Georgie e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d’inverno, ma asciutta. Il Korova era un sosto di quelli con latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com’erano questi sosti, con le cose che cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge».
Quello che avete appena letto è l’incipit di uno dei romanzi più straordinari della letteratura moderna, Un’arancia a orologeria, di Anthony Burgess, reso famoso dalla trasposizione cinematografica di Kubrick, Arancia Meccanica.
L’aspetto più interessante del libro, a mio parere, non sta nel tema che tratta, quello della violenza che pervade la società moderna, ma nel linguaggio che l’autore utilizza per raccontare la storia di Alex, il teppista dedito a questi eccessi di violenza gratuita. Un linguaggio inventato, immaginario, nato da una fusione di inglese e russo nel testo originale, che pervade tutto il romanzo di Burgess. Da qui la sfida stilistica di oggi: riscrivere l’ormai nostro consueto brano paratattico di Hitchcock al modo di Arancia Meccanica, creando cioè un linguaggio immaginario, ma che possa essere agevolmente compreso da chiunque, come nell’incipit che vi ho proposto. Accettate la sfida di oggi?
Una giovane donna si trova sperduta nel quartiere parigino di Montmartre, intorno a lei una scura coltre di buio. La giovane cammina fra i vicoli costeggiando un lungo muro, ha paura, entra finalmente in una casa. Sale le scale, comincia a intravedere una luce, si trova nel mezzo di un bar frequentato da uomini ubriachi. Gli uomini si avventano su di lei: la vogliono rapinare, forse abusarne. La donna urla di terrore, i maniaci la legano, la buttano in un fiume, aspettano sulla riva di vederla divorata dai topi. La donna sprofonda nell’acqua, comincia a dondolare. Si sente soffocare. Una mano la scuote, si sveglia, finalmente la voce amica del dentista: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»
Alfred Hitchcock con Helgaldo
Voglio dire: è sola. Una filla tutta sola, sperduta nel Quartiere, mentre il buio scende per le rue peggio dell’acqua nei torrenti. Striscia sui muri, la filla, spremendo il tarlo perché si vede lontano un chilometro che ha paura, anche della sua ombra, finquando si imbrocca in una mesone. Una mesone, cari Miei!, che è un bucoilluminato, con una scala arrampicata che entra in posto pieno di barstardi, buono per mungerci delle bicchierate di quelloforte. Quelloforte come piace a me, voglio dire. I barstardi non ci pensano mica su due volte: la vedono, filla e sola, e il tarlo gli prende subito la direzione giusta. È unattimo: finisce presalegata e le vogliono far ripassare tutte le sfumature. La filla grida; ma chetti gridi, voglio dire. Così i barstardi gli si si rompe il giochino, con ‘sti urli, e la sfenestrano giù, nel fiume. Tanto per farsi due risate, voglio dire. Che spasso: i surissi se la vogliono sgagnare, acqua e tutto, ma questa se la dindondola e poi vaggiù e beve. Senzaria. Insomma, cari Miei!, finisce che c’è una mano che selastrapazza, la filla, con una voce che le fa: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»
Bello! Mi piace perché hai interpretato l’esercizio non solo in senso “lessicale”, ma proponendo un contesto e un’ambientazione peculiari (i riferimenti al Veneto-Francese, di cui si discuteva altrove, sono molto affascinanti)
Della serie: parlo come mangio 😉
Ottima versione, Michele. Non solo hai lavorato sul lessico, ma anche sullo stile, sul narratore. E inoltre in poco tempo. Starti dietro sarà difficile, quasi impossibile. Ora mi metto a scrivere anch’io, ma cercherò di non tener conto della tua versione (difficile estraniarsi…).
Forza gente, c’è da ribattere a un futuro Burgess, non possiamo dargliela vinta tanto facilmente. 🙂
Non c’è molta farina del mio sacco: lui ha usato il russo e io il francese (con qualche inserto veneto come i “surissi” e “sgagnare”), visto che è ambientato a Montmartre. Ho attaccato le parole allo stesso modo. Ho mimato la sua prosa. L’unica invenzione che mi è piaciuta davvero è “bar-stardi” 🙂
Bar-stardi l’ho trovata bellissima, in effetti. Ma ora te la faremo vedere noi (nel senso della prosa).
Ma complimenti, Michele! Sei sempre un passo avanti! 😉
Finirò per inciampare, di questo passo…
Matteo Michele Renzi… c’ha rottamato tutti.
La fatica principale?
Avere avuto a che fare con il correttore automatico!
Giovane cruina giangulante per le strade di Montmatre, spersa nel buio scronato della notte, tu, sola, a camminare come un roto malconcio che si aggira fra i vicoli, fiancheggiando il muro fino a scrambolare dentro una casa. La luce, al pari di uno strario incantato, ti guida lungo le scale e tu ti trovi dentro un barlaio, uno di quelli con uomini che bevono come transgugi e non ce n’è per nessuno! Sei strafantomaticamente fregata, incauta cruina: adesso quei violenti sbielloni vogliono farti a fette come il busiano che mangiano con vorace famicordia. Ti legano e ti spinteggiano nel fiume di sotto e sulla riva topi famicordi come gli sbielloni ubriachi vogliono divorarti. L’acqua ti sbantuffa vorticosamente, giovane cruina senza fiato per vivere ancora.
Crespata da una mano ti svegli, il dentivendolo che ti ha in cura ti parla con lanulosa voce: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!».
(Commento postumo: cosa arriverai a proporci, Helgaldo, ancora?) 🙂
“Dentivendolo” è bellissimo! 🙂
Con il Coniglio, più sopra, oggi si parlava (cioè lui mi parlava, che io invece non lo sapevo) della “Gnosi delle Fanfole” di Fosco Maraini. E questa mi sembra proprio in rima! 🙂
Secondo me siamo un manipolo di matti, con in testa il nostro maestro! 😉
Caro manipolo, se qui non si arrischiano altri matti la prossima volta ci troviamo noi tre soli in un barlaio a fare ‘ste cose, chiaro? Ci comportiamo da bar-stardi.
Sono vicino in questo momento di dolore al correttore automatico e alla sua famiglia.
La cosa divertente di voi due è che cambiate tutto ma “Tutto fatto, signora. Mezza corona, prego!”, non si tocca. Versione fantastica, ma le parole che hai usato esistono su qualche vocabolario o sono frutto di una polverina bianca?
Eccerto, nel vocabolario siculo del “unn’aviva cchi fari”
Bianchissima, sta polverina! Bianchissima!
Bravissima Marina, un testo che prende subito. La mia trovata preferita è “famicordia”; dà proprio l’idea del branco che mangia.
Grazie rabbit, che fatica però, questi neologismi!
Non mi associo a questo entusiasmo, non vorrei che si montasse la testa.
E bravo Helgaldo: è così che vuoi bene ad una delle tue più ostinate e affezionate sostenitrici!
Sei andata a leggere, dunque. Non me l’aspettato, credevo non te ne accorgessi. 😦
Mi sfuggono solo le cose che non mi interessano!
Mi avevano assicurato che eri alle prese con i figli, la casa, la spesa, il romanzo, il blog, whatsapp, facebook, twitter, la fame nel mondo, expo… non credevo avessi tempo anche per questo.
Se sono a 360 gradi ci sarà pure un perché! 😀
Io non capisco che bisogno ci sia da parte vostra di farmi sentire un ragioniere della prosa. La mia versione potrebbe entrare in un testo sulla partita doppia tanto è piatta… La prossima volta facciamo i pensierini da prima elementare, contenti? 🙂
Una giovane tacchetta si trova sperduta nel blocco parigino di Montmartre, intorno a lei una scura coltre di buio. La tacchetta cammina fra i vicoli costeggiando un lungo muro, è trillerata, entra finalmente in una casa. Sale le scale, comincia a intravedere una luce, si trova nel mezzo di un alcafé frequentato da fuchi shakerati. I fuchi si avventano su di lei: la vogliono rapinare, forse spettingarla. La tacchetta urla di terrore, i maniaci la legano, la buttano in un fiume, aspettano sulla riva di vederla divorata dai topi. La tacchetta sprofonda nell’acqua, comincia a dondolare. Si sente soffocare. Una mano la scuote, la drindrinna, finalmente la voce amica dello strizzacarie: «Tutto fatto firstlady. Mezzo sonante, prego!»
Poi controlliamo nel wikizziunariu se esistono, ‘ste parole…
http://scn.wiktionary.org/wiki/P%C3%A0ggina_principali
Lo “strizzacarie” 🙂 solo io mi sono dimenticato di citarlo…
Anche tacchetta non è male: rende molto meglio di filla.
Per ora abbiamo una filla, una cruina e una tacchetta.
Azzardo una rima: chi più ne ha più ne metta! 😀
😀
Altro che ragioniere: il maestro non si tocca!
Inutile lisciarmi. Continuerò a darvi i compiti per casa fino alla conclusione del quadrimestre.
Ecco! Neanche con l’adulazione, oh! Però è già maggio…
Hai distrutto l’ultimo invariante; già che c’eri, potevi cambiare il prezzo! 😀
Aspetto l’adeguamento Istat. 😀
Ciao ^_^
Ho provato a giocare anche questa volta!
Una finfera si trova in fratte nel Tuttocase parigino di Montmartre,
a girarle intorno un fittobuio furioso.
La finfera passo a passo fra i vicoli tallona una pilamattonata verticale,
ha il cricchiaossa, si starta all’era ora in una racchiudistanze.
Svia per le saliscendi, il fittobuio si arrende al bruciaocchi,
intoppa in una bevitoria dal giro selezionato di onni fiasconi.
Gli onni si rapacizzano su di lei: la vogliono dequattrinare,
forse, farle la festa.
La finfera dà volume alla voce con riverbero gelasangue,
i maniopatici la sagolano, la danno in pasto ai topi nello scorrilento.
La finfera finisce sotto, olla olla. Sta a mezz’aria. Una mano la sonaglia,
si sveglia, all’era ora lo squillo del mangiacarie:
“E’ Andata signora, doppio quarto di cintatesta d’oro, prego!”
Bello il “cricchiaossa”!
Oggi ho imparato un sacco di parole nuove 🙂
E grande Iara, pare che tu abbia un vero talento per i neologismi e riesci ad inventarti immagini splendide, come lo scorrilento, la pilamattonata e il mangiacarie!
Questi giochi hanno l’unico scopo di migliorare le tue possibilità espressive. Facciamo tutti parte di un’associazione, tranne te, per il recupero degli scrittori dal lessico a livello del Grande fratello.
“tranne te” sarebbe per me, che poi si spaventa il coniglio 😉
Esatto.
Wow! A fantasia non ci batte nessuno! 😉
Grande Iara, una versione con finferli (intesi come funghi). Hai giocato alla grande. Nel Tuttocase, pilamattonata, bruciaocchi, gli onni fiasconi, lo scorrilento e molte altre davvero strepitose. Dovresti farlo leggere a chi non conosce la versione originale. Quanto meno ti guarderà con occhi nuovi. 🙂
Forse proverà nuovi interessi per te. Forse ti eviterà per sempre.
Ho provato a immaginare una favola raccontata da un bambino nato in un mondo postapocalittico. Oppure ho semplicemente trascritto il risultato di questa notte, insieme ad un figliolo con la faringite e l’altra con la tosse.
Ciravolta una città di nome Mammatre che aveva gnammato una tatagrande nelle sue strade; era buio e lei non vedeva niente. Scilava piano piano lungo il muro e piantremava tutta di paura. In cima ad una scala lunga lunga vide una bagliuce lontana, ma finì dentro ad un postobrutto con degli assassini che la volevano prendere. Lei pianse e impietò, ma loro la legarono e la buttarono nel fiume, dove c’erano un megarione di topomostri con le zanne che la mangiavano sott’acqua.
Però Dentamico infila una mano nell’acqua, la prende e lei si sveglia. Lui dice “Ora è tutto a posto, tatagrande. Mi regali un soldino?”
Bella, delicata. “Soldino” era una vita che non lo sentivo 🙂
😀 Noi cominciamo ora a sentirlo!
Se non perdi il dentino non puoi avere il soldino. Vai dalla strizzacarie, dal dentamico… vai, e vai!
Dentamico? Fantastico!
Nel mio caso sarebbe più appropriato un dentincubo!
Mi piace pensare che sia stata scritta per narrarla ai bambini in un mondo normale. Normale per modo di dire. Pensandoci bene è più normale l’atmosfera della nuova versione che quella che affrontiamo per le strade. O siamo forse già in un mondo post apocalisse?
Sicuramente la seconda
Poi ci sarebbe anche un dentista sadico che vede le cose dal suo punto di vista…
Sudicia malnata! Si agita e sobbalza tutta, nel suo incubo da isterofessa; rischio di perforarle una radice, come minimo. Chissà cosa le passa in quella zuccaricca da aristoborgante. Brutta allucivacca. Tutti così: ricchi, viziati e psicodifettati, come minimo! Bel guadagno che ho fatto, in quanto a clientela, aprendo la bottega a Montmartre. A volte penso che avrei fatto meglio a restare con i rompiossa delle bettole, ad occuparmi delle marcitudini coronali e delle voragicarie.
Ti auguro di sognare quelli, tettesecche! Sogna che ti portano in uno di quei bar, in cima alle scale strette, dove ti ripassano per benino e poi ti buttano giù, nuda e legata, nel canalpiscio, in pasto ai topi! Come minimo.
Oh, come si contorce…
Su, forza, in piedi, pignascoscia: mi devi un credito, come minimo, per quella orofogna che ti ritrovi!
Apperò! Mi sgomenta il canalpiscio! 🙂
Basta non cascarci dentro…
Applausi!
Grazie, Grazie!! Mezza corona, prego.
Orofogna 😀
Grazie 🙂
Per me non è stato tanto complicato inventare parole, ma cercare di dare un tono coerente al racconto, coniando termini che potessero rispecchiare l’atmosfera voluta.
Quello che mi è piaciuto dei vostri è che questa intenzione c’era tutta.
In particolare, negli ultimi due che ho letto di wererabbit…
Uno fiabesco, con una scelta di termini che ne fa realmente un racconto per bambini; l’altro, in deciso contrasto col precedente che utilizza un linguaggio aggressivo e insofferente per una narrazione più dura e violenta.
Sapete qual è la cosa più inquietante di tutto questo? Che mi sono comprato su Amazon la versione Bartezzaghi – Eco degli “Esercizi di Stile” di Queneau!